domenica 2 dicembre 2012

COMPARSE

"A volte parlava talmente piano che lo si capiva a stento, poi si metteva ad urlare in mezzo alla strada. "Sono così sensibile, così terribilmente sensibile". I primi tempi ero imbarazzato, ma lui non voleva in mezzo ai piedi persone che si vergognassero del suo comportamento. La gente timida gli stava sulle palle",

Aron Grunberg

mercoledì 28 novembre 2012

IL POSACENERE

Non credo più in Dio, nell'amore o nel karma. Credo che vadano regolarmente tagliate le doppie punte e mi fido solo del display contacalorie del tapis roulant. Non riesco più ad arrivare a mio marito; o parliamo in due lingue diverse oppure, quando riusciamo ad usare una lingua franca, discutiamo di cose disgustosamente futili.
A cena tenevamo la tv rigorosamente spenta; ora mi preoccupo di accenderla perchè ci sono stati dei pasti in cui il silenzio era assordante- lo scroscio dell'acqua versata nel bicchiere riecheggiava in tutto l'appartamento- e consumavamo le pietanze in fretta, come bestie che grufolano nel trogolo.
A casa ho sempre freddo. Ho trovato pretesti per starci il meno possibile; dopo il lavoro vado in palestra. Più grassi brucio, più mi sento realizzata come donna. Eppure una volta ero una persona migliore. Sinceramente non so quando ho cominciato ad imputridire; adesso mi ritrovo con le unghie al gel limate e smaltate dall'estetista e non me ne importa niente. Sfilo le banconote dal borsellino e pago la parrucchiera, e mi sento patetica. Non bella.
Stasera c'è una cena di lavoro, io e le mie colleghe andiamo in questo ristorante à la mode e, mentre aspettiamo le portate, prendiamo un aperitivo al bancone. L'ambiente è in semioscurità, fluorescente ed ammiccante, tutte le donne portano scarpe con tacchi vertiginosi e plateau e le pareti ospitano collezioni di fotoamatori. L'effetto polaroid  pare sia di gran moda.
Mi appoggio sul banco e urlo “UN PROSECCO!” nell'orecchio del barman pelato. Due tipi avvenenti siedono in cima agli sgabelli, proprio di fianco a noi. Uno mi guarda, anzi mi fissa, poi mi sorride; si alza e si avvicina. Mi approccia con una sicurezza che sfiora l'arroganza e la presunzione. Me ne sto lì di fronte a lui ad aspirare avide boccate di Armani Code e a osservare le labbra carnose che si aprono e si chiudono al di sopra di una dentatura da pubblicità Colgate. Mi sento sempre più arrendevole e realizzo di provare l'indecente desiderio di leccargli la mascella perfettamente rasata.
Ci rincontriamo dopo che le nostre cene sono finite. Mi propone di andarcene a bere un amaro da qualche altra parte; io dico ok, va bene. Così mi ritrovo a flirtare sul divanetto di un wine bar senza sensi di colpa, anzi con una soddisfazione perversa. E i brividi quando mi sfiora i capelli.
Ma la femme fatale muore all'uscita dal locale; montiamo in macchina sua e non perde un attimo a prendermi per la nuca e baciarmi. Sento guizzare in bocca la lingua di questo sconosciuto e sento di non volerlo, non ci voglio entrare in questa terra incognita vestita di buona sartoria. Lo scosto bruscamente, scendo, vado a grosse falcate verso la mia macchina; dietro di me lui mi chiama indietro, ride, si infuria, comincia a gridarmi svariati insulti (frigida, puttana.....be' deciditi!).
Non lo guardo finché non ho messo in moto la vettura. Guido allucinata: prendo le curve larghe e in velocità e sento il vino sciabordare nello stomaco. Mentre aspetto al semaforo, mi accendo una sigaretta. Un regista che, dopo la prima, si accorge che il suo nuovo film è una clamorosa cagata deve sentirsi così, suppongo. Riparto: la cenere si sparge su sedili, cappotto e tappetini, la nicotina mi arriva subito al cervello e entra di forza nello stomaco. Sono, fisicamente e metafisicamente, nauseata.
A casa scappo subito in bagno a rimettere: appoggio i gomiti sulla tazza e ascolto i disgustosi risucchi e rantoli che la mia bocca produce. Entra Leo in pigiama:- Ehi....che hai? Ti ha fatto male la cena?- .
Sputo una boccata. - E' uno schifo... davvero, uno schifo-. 
- Cos'è che può averti dato noia?-. Mi giro a guardarlo; se ne sta sulla soglia, ben lontano da quella massa malconcia e maleodorante che è sua moglie. Io mi pulisco la bocca con la mano (sempre meno dignitosamente) – Noi...noi siamo diventati schifo. Così..così..- indico lo spazio che ci separa. A fatica mi rialzo. Lui risponde – Sei ubriaca?-.
Scuoto la testa e avanzo piano verso il salotto. - Dimmi che non è vero... Dio, è insostenibile. Insostenibile-.
Mi butto stancamente sul divano. Leo non risponde, si avvicina alla finestra e prende una sigaretta. Lo fisso fumare e tacere, e ogni attimo di quel silenzio ostinato mi esaspera sempre di più, sempre di più. Le labbra si schiudono solo per espirare fumo, non emettono suoni. In fondo la sua figura non è tanto più estranea del Signor Armanicode, adesso. E questo pensiero è uno squarcio nel ventre, e io sono esausta e ho la bocca impastata di rancido e lui non mi dice cosa cazzo gli passa per il cervello. Dietro la barricata del mutismo, si mette. Ma parla, per Dio, articola, esterna, esprimiti!
Mi lancio verso di lui, afferro la mano che ormai regge il mozzicone, mi arrotolo la manica della camicia e, ficcando i miei occhi nei suoi, scandisco :- Vuoi fare una cosa per me, eh, vuoi? Se mi ami.... ascoltami e guardami, se mi ami, spegnimi questa sigaretta sul braccio. Sì, qua-.
- Ma che dici? Ti faccio male, scema.... stenditi un altro po', dai -.
- Ti giuro che fa più male questo tirare a campare-. Ostento il braccio nudo davanti a lui. Che sbatte le palpebre. Nient'altro.
- Gesù, te lo sto chiedendo io, spegni quella cazzo di sigaretta sul mio braccio! -.
- Non ha senso-.
- Spegnila!-
Leo si volta, afferra dalla libreria un dischetto in similvetro massiccio blu. Cerca di ridere. – Sei matta....questo l'hanno inventato apposta-. E preme il mozzicone sul fondo del posacenere.

sabato 24 novembre 2012

CANTILENA DI NATALE

Guardiamoci intorno; sono gli inizi di novembre e già spuntano abeti e renne per le strade. Bella storia, il Natale. La manovra commerciale più redditizia dell'anno. Sono cinico, dite? Forse. Ma mi sembra molto difficile credere che i produttori di panettoni badino a mettersi così per l'avanti solo per la salvezza delle nostre anime. Basta leggere gli ingredienti sul retro della confezione: farina, burro, zucchero, uova fresche, uva sultanina, lievito di pasta madre, scorze di agrumi candite, sale , sciroppo di zucchero invertito,sciroppi di glucosio o di glucosio-fruttosio, mono e digliceridi degli acidi grassi, acido sorbico .
L'ultima vigilia di Natale mi sono chiuso in casa a tapparelle abbassate e ho guardato Dracula di Bram Stoker, Miriam si sveglia a mezzanotte e Nosferatu il principe della notte di fila.
Non so, un tempo mi piaceva canticchiare Jingle Bells e fare biscotti da regalare, e decorare l'albero con bastoncini di zucchero. Poi però la vita ti insegna a disilluderti e diffidaree smetti di credere a chi ti dice “dai, risentiamoci per vederci una di queste sere”. Quelli non scombineranno mai le geometrie perfette del loro planning per te. Ma ti telefoneranno se ti succede una disgrazia, di questo si può stare certi. Se poi di mezzo ci sono donne o soldi, aspettati di tutto, specie se ti viene detto che è una “questione di principio”. Il principio è un paravento dietro cui si nasconde la brama di moneta sonante, un concetto di comodo. Per questo non credo nel buonismo candito, me ne vado in giro con lo sguardo torvo e grugnisco vedendo che il mondo comincia già a ricoprirsi di glassa natalizia. Quando ero un ragazzetto, mi faceva compassione vedere che c'era gente che doveva lavorare anche il 25 Dicembre; primi fra tutti gli autisti di autobus. Osservavo la desolazione delle vetture vuote mentre andavamo a pranzo dalla nonna, e pensavo al povero conducente che doveva trottare tutto il giorno per la tratta urbana praticamente a vuoto. Forse saliva qualche vecchietta o il solito povero diavolo avvinazzato.
Mi stupiva poi il fatto che, nonostante fosse Natale, andasse in onda il Tg : a chi potevano interessare gli affari di politica estera e interna, quel giorno, intontiti come si era dal sugo grasso delle lasagne? A ben pensarci inoltre, anche il mezzobusto con la cravatta e la scriminatura da una parte stava lavorando in un giorno festivo. E anche i cassieri del cinema; c'era un'intera schiera di invisibili che pedalava nell'ombra mentre la maggioranza se ne stava in panciolle.
Adesso anch'io lavoro per Natale: è il regalo migliore che possa farmi. I miei sono anziani, mezzi sordi e spesso in preda a raptus di demenza senile; a volte mi scambiano per il fratello che non ho. Per le feste comandate mi rendo disponibile l'intera giornata; faccio il barista e, mentre monto il latte per il cappuccino, osservo l'umanità al di là del bancone. Sorprendente come i nostri stomaci non siano mai sazi: ho rilevato questa sorta di bulimia sociale per cui, non importa quanto agnello sua suocera gli abbia preparato, l'Uomo Medio alle diciotto ordina un crodino e si abbuffa di noccioline e pizzette. Dio benedica l'happy hour.
Ma per me è sicuramente più edificante rimpinguare il mio conto in banca servendo tè a signori in tweed e sbirciare nei Natali altrui piuttosto che abbrutire su qualche divano di fronte ad un teleschermo che trasmette in loop film con renne parlanti, babbi natali in pericolo e bimbi americani pedanti. Sarebbe talmente deprimente che finirebbe senz'altro a taralli e vino. Pochi taralli e molto vino. Nel giorno in cui nasce Gesù Bambino meglio essere zelanti lavoratori che ubriachi molesti, giusto?

martedì 13 novembre 2012

SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO



      Spesso il male di vivere ho incontrato:
      era il rivo strozzato che gorgoglia,
      era l'incartocciarsi della foglia
      riarsa, era il cavallo stramazzato.
 
      Bene non seppi, fuori del prodigio
      che schiude la divina Indifferenza:
      era la statua nella sonnolenza
      del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. 

Eugenio Montale

giovedì 8 novembre 2012

LANGUORE

Sono l'lmpero al limite estremo della decadenza,
Che componendo acrostici indolenti
Con stile d'oro, ove danza il languore
Del sole, guarda passare i gran Barbari bianchi.

L'anima soletta ha male al cuore di noia densa.
Vi sono laggiù, si dice, lunghe battaglie cruente.
Ah non potere, io così fiacco, dai voti così lenti,
Non volervi fiorire un po' questa esistenza!

Ah! non volervi, non potervi un poco morire!
Ah! tutto è bevuto! Batillo, la smetti di ridere?
Tutto è bevuto, mangiato! Più niente da dire!

Solo, una poesiola un po' ingenua da buttare nel fuoco,
Solo, uno schiavo un po' donnaiolo che vi trascura,
Solo, una non si sa qual noia, che vi tortura!

Paul Verlaine

mercoledì 7 novembre 2012

MI INCHINO DI FRONTE ALL'ARTE, MA SULL'IGIENE NON SI TRANSIGE

Non so precisamente quanti giorni sono rimasto chiuso là dentro.
Non mi importava granchè di contare le ore e pensare di affrontare il fuori mi atterriva. Il fuori: permesso scusi, semaforo rosso, semaforo verde, clacson, prenda il numero e aspetti il suo turno, buongiorno vorrei... - sì sono dieciecinquanta, faretti manichini insegne, cani che pisciano.
Non avevo abbastanza energia per tutto questo.
Volevo solo la mia stanza, le tende tirate secondo necessità e l'odore di acrilico. Inoltre avevo avuto l'Idea e dovevo inseguirla subito, non potevo interrompere per, che so, andare al supermarket. L'Idea è volubile e caduca come il bel viso di una sconosciuta per strada: ci devi tenere gli occhi addosso finché puoi, perchè poi scomparirà per sempre.
E quindi mischiavo i colori secondo i dettami della Musa e non guardavo l'orologio; di tanto in tanto mi facevo un tè o un caffè e nell'appartamento i due aromi si fondevano, e io cercavo l'overdose aprendo un vasetto di curry o annusando il legno di una matita.
Ogni stimolo sensoriale confluiva nell'Idea; mi lasciavo suggestionare anche dalla cosa più insignificante – perché è così che si hanno le intuizioni più geniali. E quando il corpo comincia a dare segni di fame o stanchezza, allora il cervello è ancora più sensibile. Io approfittavo di questo stordimento per cambiare prospettiva, una lente deformante che mi rivelava nuove visioni. Per esempio l'altra sera ero sfibrato e mi sono affacciato alla finestra e vedere i tetti illuminati dall'alone arancia dei lampioni e le luci vicine e lontane delle finestre e la luna che galleggiava in alto, be' mi ha lasciato senza fiato. Mi sono buttato a dormire sul divano poi e ho fatto sogni grotteschi e incalzanti e mi hanno svegliato pungenti crampi allo stomaco. Alzandomi il pavimento si è inclinato e io ho barcollato fino alla dispensa. C'erano Simmental e fagioli. Svuotai entrambi i barattoli in una casseruola buttandoci olio e pepe ( ecco che un velo di fumo si sollevava, tulle bianco che avvolgeva manzo in gelatina).
Ho lavorato senza requie credo per i due giorni successivi; tutto quello che vedevo erano le mie mani (chiazze di pigmento rapprese sulla pelle e sotto le unghie) che pennellavano la tela ed era sempre più difficile distinguere dove finivo io e dove cominciava il quadro. Fino a che io ero il quadro, ero nel quadro, ero colore e le dita che l'hanno partorito. Era finito e io non riuscivo a non guardarlo ( veramente quella tela era stata bianca?) a non perdermi nei dettagli negli intrecci delle sfumature nei punti di luce nei chiaroscuri. Cantava con le voci di Caravaggio, Boldini, Klimt, Turner, Modigliani, Chagall..... Mi inginocchiai davanti al quadro, mi sdraiai ai suoi piedi fissandolo da sotto in su piangendo spossato – e Botticelli e Gaugin danzavano un valzer.
Dopo ricordo l'urlo penetrante di mia sorella e la sua figura gettata di slancio su di me. La tranquillizzai cercando di rialzarmi con disinvoltura, ma il suolo era diventato di nuovo di gelatina. Mi afferrò per il braccio e mi fece sedere.
- Gesù, ma che hai combinato? Puzzi come un cane bagnato!-. Federica studiò il tegame rimasto appoggiato su una pila di libri dal giorno prima.
- Lavorato; ho finito quello – indicai – ieri notte-. 
- E come sei finito a pelle d'orso sul pavimento?-.
- Boh....mi sarò addormentato...-.
-Per terra?!-.
Feci spallucce, avrei voluto parlarle dell'Idea, ma lei incalzò: coshaifatto, haimangiato, daquantotempononescidicasa, parole parole parole. Lei non commentava, ma mi guardava con il sopracciglio destro inarcato in un'espressione che mi ha sempre messo in soggezione.
Si accese una Marlboro e, tenendola elegantemente tra indice e medio, si grattò la fronte con il pollice – Ma perché fai così? Non ti riesce avere degli orari, dei ritmi normali? -.
Dio, quanto odio quella parola! Mi ingrugnii – Che vuol dire, normali?-. Biascicai e risputai l'aggettivo come fosse carne rancida. 
- Come tutti, che lavorano un tot di ore, poi si fermano e si fanno una doccia e vanno a fare la spesa ; Cristo, ma alla tua età vivi ancora di roba in barattolo! Ma ti rendi conto?-.
La guardai; era bellissima. O forse a me sembrava bellissima solo perché era mia sorella. Sta di fatto che la poesia dei suoi capelli raccolti ( ma dei ciuffi sfuggivano e le incorniciavano il viso) e del naso all'insù e delle sottili labbra a cuore mi deliziò nonostante stesse pronunciando quella che per i miei timpani era una sequela di eresie.
Ciccò in una delle tazzine sparse per casa e finì la sigaretta in silenzio. Fissava intensamente il quadro. Sospirò, e nell'ultima boccata di fumo c'era la sua preoccupata disapprovazione.
- E' geniale-. Lanciò uno sguardo obliquo alla mia camicia di jeans sgualcita e macchiata e lisa. - E' incredibile: tu, quello che mi ha vomitato sui piedi a Capodanno, che intingeva i cetriolini nella nutella e che ho visto piangere smoccicando centinaia di volte.....be', hai fatto questo-. Si passò dietro l'orecchio la ciocca ribelle, lisciandola più volte. - Se anche ti decidessi a darti una raddrizzata, a essere un po' più....regolare nei ritmi di vita....-.
Mi appoggiai allo schienale del divano e da molto lontano, stancamente, risposi – Io non pretendo di insegnarti a vivere; perché tu vuoi farlo con me? Perché non posso stare così e fare quello che mi rende felice? Io sono quello che sono: perché non puoi, semplicemente, accettarlo?-.
Improvvisamente mi sentii vecchio e rugoso, avevo voglia di piangere e dormire. Mi raggomitolai in un cantuccio del divano e chiusi gli occhi. Io non parlavo, lei non parlava. La sentivo respirare. Si schiarì la voce. - Dai, vieni a pranzo da me,così mi racconti di quest'ultimo parto....però prima fatti una doccia calda, per amor del cielo-. Mi prese per mano (una mano spalmata di crema alla mandorla e aloe, pelle liscia e fedina d'orobianco all'anulare); quando ho dischiuso le palpebre, l'ho rivista nei suoi vent'anni che mi chiedeva se poteva prendere in prestito il mio gilet di camoscio.
- Su, doccia; mi inchino di fronte alla tua arte, ma sull'igiene non transigo-.
Mi alzò strattonandomi; ho dovuto obbedire.


lunedì 5 novembre 2012

HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue. ”


Eugenio Montale

venerdì 2 novembre 2012

AL LETTORE - DA BAUDELAIRE CON AMORE

Al lettore

L’errore la stoltezza il peccato l’avarizia
occupano i nostri spiriti, sfibrano i nostri corpi,
e noi alimentiamo amabili rimorsi
come i mendicanti nutrono i pidocchi.

Testardi nel peccare, vigliacchi nei pentimenti,
con laute ricompense confessiamo le nostre colpe
e sereni rientriamo nel cammino fangoso
credendo che vili lacrime ci lavino dalle macchie.

Sul guanciale del male c’è Satana Trismegisto
che culla lungamente il nostro spirito incantato
e, sapiente alchimista, riesce a evaporare
il ricco metallo della nostra volontà.

È il Diavolo a tenere i fili che ci muovono!
Negli oggetti ripugnanti troviamo la bellezza;
discendiamo di un passo ogni giorno verso l’Inferno,
senza orrore, attraverso tenebre puzzolenti.

Come un povero debosciato morde e carezza
il seno martirizzato di una vecchia puttana,
noi rubiamo al volo un piacere clandestino
e lo spremiamo con forza come una vecchia arancia.

Serrati, formicolanti, come vermi a milioni,
popoli di Demoni ci gozzovigliano nei cervelli,
e quando respiriamo, con sordi lamenti,
il fiume della morte ci scende nei polmoni.

E se stupro, veleno, pugnale ed incendio,
non hanno ancora intrecciato dolci ricami
sulla tela banale dei nostri destini,
è che l’anima nostra non è abbastanza ardita.

Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le linci,
le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti,
mostri urlanti, ruggenti, striduli, rampanti
nel serraglio infame di tutti i nostri vizi,

Ve n’è uno più brutto, più cattivo, più immondo!
Benché non si riveli con gesti o con grida
farebbe volentieri della terra un rottame
e solo sbadigliando inghiottirebbe il mondo:

È la Noia – occhio carico di lacrime involontarie
sogna impiccagioni fumando il suo houka.
Tu, lettore, conosci questo mostro incantevole
 – ipocrita lettore – mio simile – mio fratello!

giovedì 1 novembre 2012

L'ARTE DELL'ATTESA

La solitudine è una brutta bestia. Un pezzo di formaggio muffito in frigo. Per cercare di sopportare mi sono svenduta a tipi decisamente mediocri. Nuovi numeri in rubrica da chiamare, diversi aromi di dopobarba, corpi più o meno glabri. La mia nausea però non passava. Vivevo di briciole d'illusione, parlavo allo specchio, scrivevo messaggi che avrei voluto ricevere, mitizzavo e mi lasciavo spogliare. Che squallore. Mi convinsi di avere problemi di dipendenza dal sesso, presi appuntamento da uno psichiatra. Quasi ci speravo, di venire bollata come erotomane: avrei elemosinato un po' di psicofarmaci e avrei raggiunto il nirvana. Mentre sedevo in sala d'aspetto, continuavo ad abbassarmi la gonna, tirandola per coprire le ginocchia.
Mi immaginai di entrare e beccare il dottore a pippare cocaina come il vecchio Sigmund. Invece mi aprì la porta dello studio, mi fece accomodare a sedere e io cominciai a parlare aggrappandomi all'orlo della sottana. La diagnosi non fu niente di eclatante: avevo solo fame. Ma non una fame qualunque che si potesse saziare con un tramezzino stantio o una merendina; era una voglia di qualcosa di esotico e sublime, ancestrale, una fame che non ti lascia dormire per i crampi allo stomaco – una bocca eternamente spalancata che ruminava saliva. E' normale seguire gli istinti, mi disse, è sano, anche se ovviamente un po' rischioso.
Niente antidepressivi.
Mi misi a digiuno. Non permisi più a nessuno di accarezzarmi i capelli. Avevo notato che le mani delle maggior parte delle persone erano sudice.
E poi successe; nemmeno ci sfiorammo, la prima volta che ci siamo incontrati. Eravamo nel dehors di un tipico Irish pub e io lo guardavo gesticolare mentre parlava. Muoveva il polso flessuosamente e usava espressioni tipo “come se non ci fosse un domani”, “ putacaso”, “al che gli faccio....e lui mi fa...”, “che mentecatto!”. Quando finii la mia Beck's, mi alzai e lo salutai con un cenno di testa e un sorriso. Me ne andai con il suo profumo nelle narici e il ventre caldo. Superfluo dire che ci rivedemmo ancora e ancora; la Grande Fame cessò. Amavo ed ero amata.
Tuttavia mi ha lasciata. Non voleva, ma ha dovuto farlo.
Ma non se n'è andato del tutto: una parte di lui è rimasta qui, tangibile e viva, e ora dorme nel mio letto. Mi ha lasciato in dono questa splendida creatura. Tre anni fa, per qualche strano meccanismo del destino ( che si è bellamente beffato dello zelo con cui io assumevo la pillola), sono rimasta incinta. Lui era stato abbandonato da un padre violento a dieci anni, se l'era filata dopo aver picchiato la madre per l'ultima volta, dopo averla battuta e schiaffeggiata e lasciata sanguinante e semi incosciente. Da quel giorno l'idea della paternità lo terrorizza. Per questo non poteva rimanere con me.
Non sono arrabbiata con lui; insieme eravamo felici e completi. Avremo potuto continuare ad esserlo, certo; lui avrebbe potuto affrontare la sua paura, guardarla nelle palle degli occhi e prenderla per i testicoli. Forse sarebbe andata bene. Forse. Ma tanto con le subordinate ipotetiche non si cambia il mondo.
Quando guardo la mia bimba, vedo lo stesso sguardo ambrato di lui e allora la bacio e per me è come se stessi baciando anche lui. Siamo uniti nell'inscindibile miscuglio genetico di nostra figlia. Nostra figlia: nessuna poesia può raggiungere il picco di bellezza di questo binomio possessivo-sostantivo.
Oggi l'ho portata con me a fare la spesa e le ho comprato la sua prima scatola di pennarelli: abbiamo passato il resto del pomeriggio a disegnare e adesso dorme. Ha le mani e il muso inzaccherati di colore e il ciuccio ben saldo nel pugno destro. Scivolo a prendere la macchinetta e le scatto diverse foto. La luce batte sul volto in modo splendido, caravaggesco: le ciglia lunghe gettano la loro ombra sulle guance.
WELCOME TO THE JUNGLE, WE GOT FUN AND GAMES....
Mi lancio sul cellulare prima che la bimba si svegli, metto male il piede e rispondo sbattendo contro la libreria. - Pron-ahi, pronto?-.
- Ehi, ciao...Ahem, senti non riattaccare, io è da un po' che volevo chiamarti e ci ho...sì insomma ci ho pensato tanto, quindi se potessi ascoltarmi...solo ascoltare un attimo...-.
Gesù! Mi genufletto sulla moquette e mi raggomitolo contro il mobile aggrappandomi al telefono e mordendo le nocche per non fargli arrivare i singhiozzi.
- E' che...ecco io mi chiedevo.... potrei - potrei vedere la bambina? Ti porto anche un po' di soldi, eh, ci mancherebbe... Ho trovato un lavoro lì da voi, a Lucca, e quindi sono tornato....ma volevo farlo comunque, intendo telefonarti...-. Pausa, respiro. Ancora respiro. - Che...che ne dici? Io..be' se sei arrabbiata è normale, hai ragione... porti ancora capelli lunghi e rossi? Quanto mi sono mancati...-. Lacrime nelle parole.- E la bimba, ti somiglia?-. Climax di commozione.
Ho quasi tre anni di cose arretrate da dirgli; rimangono tutte impigliate nelle corde vocali. - Io...sì, per me va....mh- mhhm..va bene, se vieni. Mi sa che Viola assomiglia più a te, sai-
- Allora...ecco, se non avete niente da fare magari passo più tardi...- e poi con una studiata palese nonchalance aggiunge – non so, se hai un compagno adesso e vuoi prima parlargliene...-.
Lo interrompo con una risata mista a un singhiozzo. - Idiota.....lo sai che t'aspetto...-.

lunedì 22 ottobre 2012

LA MATITA


Ore diciannove e trenta sotto la pensilina della linea 23C. Otto gradi centigradi circa. Sono stanca. Stamani alle nove, quando sono entrata a lavoro, il sole era diluito in un cielo bianco sporco; ora il mondo è livido. Solo le scintille dai fari che sfrecciano e si riflettono nell'asfalto umido. L'autobus passerà tra nove minuti, un'attesa che mi fa dolere le rotule. Sono stanca. Lo so che l'ho già detto, ma sento nei muscoli e nelle ossa tutto il freddo e la stanchezza di questa terra. Devo trovare un'occupazione per il cervello- se penso al bus, il bus non arriverà mai, una sorta di maleficio: guardo le macchine passare, le biciclette, i motorini. Frugo in borsa, raccolgo in una mano fazzoletti appallottolati e scontrini raggrinziti di caffè e detersivi, li getto nel cestino. Continuo a frugare: agenda ( niente di nuovo da appuntare), una molletta, caramelle balsamiche. Mi ficco in bocca una caramella. Ancora cinque minuti. Mi arrendo, fisso il vuoto. Respiro dentro la sciarpa di lana. Struscio le cosce fasciate nei jeans l'una contro l'altra.
Passa il 19B. Passa il 7. I minuti si dilatano, mi deformano i tendini. La carcassa arancio Ansaldobreda gira l'angolo e si avvicina. Finalmente. Mi siedo incrocio le braccia ficco le mani sotto le ascelle. Mi accartoccio su me stessa. Tre ragazzetti in fondo al bus ( dilatatori e bilancieri alle orecchie, rapa e cresta) sghignazzano e si danno di gomito. Mi guardano. Io butto gli occhi fuori dal finestrino, incapace di affrontare la loro espressione beffarda. Brutta, mi sento. Perché mi fissano? Perché? E poi fuori è così buio. Anche le mie mani stanno diventando buie: ho i geloni e spaccature sulle nocche e le unghie violacee. Mi sento violentata. Vorrei arrivare a casa – per favore autista più presto più presto oh Dio ho bisogno di casa.
Sono sull'orlo delle lacrime.
Davanti a me si siede una bambina con la nonna, appena salite alla fermata di Via D'Azeglio. La bimba ha degli stivaletti in gomma a fiori e un anellino con una coccinella. Mi guarda e mi sorride, e lo fa in modo talmente bello e buffo –ha una deliziosa finestrella, le mancano i denti davanti- che le restituisco un timido sorriso e le faccio ciaociao con la mano screpolata. La piccola ride gorgogliando e io mi sporgo per esserle più vicina e le chiedo come ti chiami?
Lei si tormenta una ciocca di capelli per qualche secondo poi risponde Martina, e io le dico mi piace molto il tuo anello, Martina. Lei allora tira fuori dallo zainetto il suo quaderno e mi fa vedere i suoi disegni e anche il suo astuccio che esplode di pennarelli e matite. Il mio colore preferito è il fucsia, mi dice, e il tuo colore preferito qual'è?
Non ci avevo mai pensato, però rispondo azzurro. Prende su una matita celeste cielo e chiede azzurro così? Sì proprio, le dico. Lei allora me la allunga, te la regalo. Ma no, ti può servire, faccio io tra il commosso e l'imbarazzato. Ma lei ripete te la regalo,e le sue pupille sono fisse sulle mie e quindi tendo la mano e prendo la matita.
La nonna chiama la bambina, devono scendere. Saluta la signora, Martina. Lei allora mi fa ciao con la mano e io mi godo gli ultimi istanti di quel sorriso sdentato.
Il bus riparte; fisso il sedile vuoto sbattendo gli occhi. Un'apparizione? La fata delle corse urbane? Persino i bulletti con le Nike argentate e la risata sguaiata non sembrano più tanto minacciosi. Hanno smesso di spogliarmi con gli occhi. Oppure sono io che ho tirato la tenda. Fatto sta che adesso mi ritrovo ad avere un colore preferito e la relativa matita. Me la avvicino alle narici: sa di legno e pastello e succo di frutta e pongo.
Di soprassalto mi accorgo che ci stiamo accostando alla mia fermata; l'aria pungente di fuori mi morde subito le dita e le guance. Mi infilo le mani in tasca stringendo il regalo nel pugno destro e lisciandolo con il pollice. Mi sembra ancora di avere degli spilli conficcati nelle cosce e le scarpe mi stringono l'alluce valgo e ho un bisogno matto di lavarmi i denti. Ma non ho più così freddo.

domenica 21 ottobre 2012

AMAMI

" Amami, perché, senza te, niente posso, niente sono.

Aime-moi, car, sans toi, rien ne puis, rien ne suis"

Paul Verlaine

domenica 14 ottobre 2012

HO FAME DELLA TUA BOCCA


Ho fame della tua bocca, della tua voce, del tuoi capelli
E vado per le strade senza nutrirmi, silenzioso,
Non mi sostiene il pane, l'alba mi sconvolge,
Cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.

Sono affamato del tuo riso che scorre,
Delle tue mani color di furioso granaio,
Ho fame della pallida pietra delle tue unghie,
Voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.

Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza,
Il naso sovrano dell'aitante volto,
Voglio mangiare l'ombra fugace delle tue ciglia
E affamato vado e vengo annusando il crepuscolo,
Cercandoti, cercando il tuo cuore caldo
Come un puma nella solitudine di Quitratúe

Pablo Neruda

mercoledì 10 ottobre 2012

ANOTHER BRICK IN THE WALL


Manuel doveva passare a prendere Davide alle dieci. Sono le dieci e ventitré, Davide è appoggiato ad un cancello a fumare e imprecare tra i denti quando la Yaris bianca di Manuel inchioda davanti a lui. Davide sale sbattendo la portiera. - Sei in ritardo, cazzone-.
Manuel sbuffa mettendo in moto; l'auto si avvia ansimando, a scatti.
- Devi dare un po' di gas quando lasci la frizione....Come ti aspetti che riparta la macchina sennò?-.
- Credevo che ci fosse un'entità superiore che la facesse andare anche senza acceleratore...-.
- Non c'è nessuna entità superiore che ti aiuterà a partire....nessun essere lassù...-. Davide aspira una boccata di fumo strizzando gli occhi. - Ognuno è Dio di sé stesso-.
Manuel rimane in silenzio. Aspetta la prossima mossa. Davide si china e attacca l'i-Pod alla presa USB dell'autoradio. - Lettera?-.
- Emme-.
Play: attacca Miles Davis.
Manuel guida in silenzio, Davide finisce la sigaretta e prende una chiamata. Riattacca con un “fanculo”. Sta lavorando ad un progetto con dei colleghi di università che lo fanno bestemmiare sonoramente. Detesta la passiva incompetenza e ignoranza dei parvenu che proseguono la carriera accademica per inerzia.
- Be', ma se ci devi aver a che fare solo per 'sto lavoro, sopportali e basta. Che sarà mai? Non puoi sempre pretendere che tutti rientrino nei tuoi standard che, francamente, sono anche abbastanza selettivi.... devi scendere a patti con il resto del mondo, se vuoi vivere in società-. Manuel è pragmatico e diplomaticamente tollerante; parcheggia nella solita piazzola isolata sul fianco della collina.
- Sai cosa dice Tyler Durden in Fight Club?-.
- Gesù....-.
Davide stappa una Tennent's. - “ Metterti le piume nel culo non fa di te una gallina”-.
- La devi piantare con queste continue citazioni...-.
-Sai cosa significa, vero?-.
- …..-.
Motley Crue.
- Non puoi fingere di essere come gli altri se sei diverso, anche se vivi in mezzo a loro. O meglio, non puoi diventare come gli altri solo perchè ci entri in contatto-.
- Sì, occhei, ma non puoi basarti sulle citazioni, portami esempi concreti..-.
- Il cinema è arte. L'arte rispecchia la vita. Diresti mai che la vita non è concreta?-. Davide beve una lunga schiumosa sorsata di birra e si pulisce la bocca alla t-shirt. - E poi viviamo nell'era di The Sims, della Wii, di Mastrolindo. E' la sagra del fittizio, dell'ologramma, del manichino-.
Tacciono tutti e due per qualche minuto. Risucchio di bocca che si stacca dal collo della bottiglia e liquido che viene deglutito. Manuel sa che Davide ha ragione ma non vuole credere che sia proprio tutto da buttare. Da bambino se l'era goduta un sacco a giocare con le Micro Machines e a correre fino a che la salivazione sballava e doveva sputare per terra, e pane e salame era così buono – e lo è tuttora-, e poi alle medie i pomeriggi passati a scoprire il punk e il metal... Non c'è nulla che si salvi di tutto questo?
Mudhoney.
- Hai il potere di farmi salire l'angoscia, tu, lo sai?-. Davide tira fuori il tabacco e si rolla un drum.
- Ormai hai varcato la soglia della beata ignoranza, ne sei fuori, e non certo per causa mia... E non puoi tornare indietro, pillola rossa o pillola blu, come in Matrix-.
- Tu e le tue citazioni del cazzo...-.
Quando toccano certi argomenti, è difficile poi che non ne escano malconci: è una china ripida da risalire, e allora si succhia fumo dal filtro come fosse latte materno dalla mammella. Uno ha bisogno di sicurezze, perdio, o quantomeno di palliativi.
- ...e quindi, secondo te, qual'è la soluzione?-. Davide getta il mozzicone a terra, e dopo mezz'ora di serrato botta e risposta anche lui si sente come quel mozzicone, spento consumato calpestato. Poco più di cenere e saliva.
-Non c'è soluzione. Non possiamo trovarla, la soluzione, tu ed io con la nostra birra e la nostra musica. Ma la consapevolezza è già una gran cosa-. Manuel scende dalla macchina e scompare tra i cespugli per urinare. Sul posto del passeggero aleggia una scia di profumo alla mirra. Dal buio frusciante delle foglie urla – EHY, CAMBIA LETTERA! METTI LA PI, COSI' CI SPARIAMO PRODIGY E PINK FLOYD!-.
Oh, sì: Breathe , breathe in the air ,don't be afraid to care ….

domenica 7 ottobre 2012

UOMINI E NO



“Giulia,
ti lascio perchè ormai la chitarra mi da più orgasmi del tuo corpo. Perchè non ho più voglia di baciarti i capelli. Perchè ti vesti come una liceale arrapata. Ti lascio con un biglietto perchè così ti incazzerai ancora di più con me, e magari sarà tutto più facile.
Senza rancore.”

Senza rancore, non credo. Ma ci saranno le sue amiche a consolarla e a darle man forte nel sputarmi veleno addosso. Non vedono l'ora di andarci giù pesante con lo stronzo di turno. Idiote: si mettono le ciglia finte per andare a ballare, abbinano la borsa con le scarpe e tutto quello che rimediano è una sveltina in macchina.
Ho lasciato il biglietto nella cassetta della posta di Giulia, poi mi sono allontanato pigiando forte sull'acceleratore. Non credo che tornerò subito a casa. Continuerò a guidare, sgusciando per le strade come la biglia argentata di un flipper ( ma ce ne sono ancora nei bar o esistono solo nel pacchetto giochi di Windows?). Tengo i finestrini abbassati ed entrano fiotti d'aria fresca che salgono su per i tubi delle narici e penetrano direttamente nella scatola cranica.
L'ho lasciata con un biglietto perchè ultimamente quando le sfioravo la pelle (aranciobruna grazie a sedute settimanali al solarium) era come accarezzare una Barbie; anzi, mi ricordo che intorno ai dieci-undici anni guardando quelle curve plastificate quasi mi eccitavo. Il suo corpo invece non rispondeva più allo stimolo delle mie dita. Oppure erano loro ad essere diventate sorde ai suoi richiami. Fatto sta che godo solo quando imbraccio una chitarra e mi arrampico su e giù per quelle sei corde, e lì le mie dita saltano pizzicano scivolano e vibrano assieme alle corde della mia Telecaster. Quando trovo il riff giusto, è l'estasi.
Di recente succedeva  che io me ne stavo a suonare con lo stesso trasporto di Santa Teresa d' Avila, mezzo fumato, a inseguire melodie visionarie. Lei si tingeva le unghie guardando Barbara D'Urso. E rideva di me; rideva se mi commuovevo ascoltando Tenco o De Andrè, perchè mi intestardivo a provare e riprovare un passaggio finché non mi usciva perfetto. Rideva  scoprendo i denti sbiancati e strizzando gli occhi da cerbiatta. Ed era una cosa che mi faceva davvero incazzare. E qualche settimana fa le ho detto che, tra i due, a me la cretina sembrava lei, che ogni sera si impiastra le cosce di crema anticellulite e che quando ha fame si ingozza di barrette dietetiche.
Allora lei ha cominciato a lacrimare, le spalle scosse dai singhiozzi, le tette strizzate nella t-shirt che sballonzolavano su e giù, il labbro tremulo. Di tanto in tanto tirava su col naso grugnendo. Ed era talmente ridicola che, stavolta, le sono scoppiato a ridere in faccia io. E la cosa ovviamente l'ha mandata in bestia.
Ho lasciato lei e la mia famiglia. Me ne sono andato di casa circa un mese fa. I miei sono gente semplice con appena la terza media. A mia mamma voglio bene; come si fa a non voler bene ad una signora che veste sempre a fiori e odora di basilico? Quando le ho detto che suonavo per locali con un gruppo, mi ha raccontato entusiasta di come, da ragazza, fosse invaghita di Mal e del suo ammaliante intercalare anglofono. So sexy. Poi si è messa a cantare Parlami d’amore Mariù e io l’ho afferrata e le ho fatto fare il casqué.
Di mio padre ho sempre diffidato un po’: viso paonazzo e barba ispida, fa il muratore e lavora sodo. Da bambino dovevo abbracciarlo quando rientrava a casa; mamma ci diceva che questo lo faceva contento, quindi bisognava corrergli incontro quando varcava l'uscio. Però lui, pover'uomo, puzzava di sudore sigaro e sudiciume e i miei abbracci non duravano più di qualche secondo. C'era un che di selvatico nel babbo, anche se si è sempre dimostrato un bonaccione. Fino a quando non ha scoperto che mio fratello ad un bel paio di tette preferisce pettorali scolpiti e tartaruga.
Ha cominciato a prenderlo a schiaffi urlando “Frocio! Frocio schifoso! A me doveva capitare....”. Il naso di Giacomo prese a sanguinare, la mano tozza del babbo continuava a menare sonori ceffoni – un cinghiale che si scaglia contro un capretto. Giacomo era troppo rintronato dalle percosse per fare resistenza, allora mi sono lanciato io su quell'uomo schiumante di rabbia, cercando di farlo smettere e di ammansirlo. Non facile. Anche perché la circonferenza di un suo bicipite corrisponde grossomodo a quella di una mia coscia. Alla fine riuscii a mettermi fra i due, facendo da scudo a mio fratello. Sentivo le ascelle sguazzare nel sudore. E non volevo credere che la bestia che ruggiva “Checca di merda!” davanti a noi fosse nostro padre.
Avevo dei soldi da parte, e avevo un lavoro: cercai un appartamento e lasciai casa mia portandomi dietro Giacomo e il suo viso pesto.
La prima sera nella nostra nuova sistemazione sedevamo entrambi in silenzio su un divano che ci era ancora sconosciuto e, in qualche modo, ostile. Giacomo sospirò e si tastò il labbro su cui aveva un taglio profondo violaprugna.
-        Ma come ha fatto?-, chiesi indicando con la testa la ferita.
- Preso in pieno con la fede...Gesù se ha fatto male!-. Si bagnò la spaccatura con la lingua e tornò a tacere. Mi avvicinai e lo abbracciai – Frocetto del cazzo...-. Gli scompigliai i capelli tra i suoi risolini striduli. Si liberò dalla mia presa, ridendo, e si pettinò con le dita. – Oh, Dio, ci vorrebbe una megavaschetta di gelato...-.
-         Sei proprio una checca...ma quale gelato, birra,perdio, BIRRA! E’ la birra che bevono i veri uomini!-. Tuttavia mi infilai la giacca di jeans e scesi dai pakistani sotto casa per comprare una confezione di gelato da un kilo.
-         Mi si stanno congelando le dita per colpa tua, signorina-. Richiusi la porta con un calcio.
-         Ma non eri andato a comprare le sigarette?-. Sotto i lividi ancora gonfi, a Giacomo brillavano gli occhi di nuovo.
-         Vai a prendere due tazze: ci sfondiamo di nocciola e stracciatella. E guardiamo un film. Un film da uomini, però; Bridget Jones te lo vedi con le tue amiche....-.
Scelsi Per un pugno di dollari. Polverizzammo il chilo di gelato. Ricordo che, mentre io avevo gli occhi chiusi per assaporare la colonna sonora di Morricone. Giacomo mi bisbigliò – Ti voglio bene....grazie-. Mi girai di scatto verso di lui, ma si era già ficcato in bocca una cucchiaiata di nocciola e fissava lo schermo.
Forse non avrei dovuto lasciarla con un biglietto, forse non è corretto, non è giusto, rifletto. Metto la freccia a sinistra, scalo la marcia e giro.
Ma d’altronde, se il mondo fosse giusto il vecchio Arsenio Lupin non si lascerebbe sedurre e abbandonare da quelle maggiorate di Margot e Fujiko ogni volta; le spedirebbe a fare le mondine in Cina e cari saluti. Ma tant’è.

mercoledì 3 ottobre 2012

SE IL PRETE VA IN VACANZA

-Sveglia...-. Alito al caffè e delicate carezze sui riccioli.
Bianca apre gli occhi e si gira verso la mamma. Si lascia sollevare e strappare dall'involucro caldo delle coperte; sbadiglia spalancando la bocca senza ritegno e scoprendo due finestrelle da denti da latte.
Oggi è domenica, ed è un giorno strano, mamma e babbo non vanno a lavoro e lei non deve andare a scuola. Anche i cartoni alla TV non sono gli stessi delle altre mattine. A Bianca la domenica non dispiace: può fare colazione con calma e guardare una puntata di Sailor Moon per intero mentre aspetta che le palline di cioccolato affoghino nel latte oppure mentre tuffa i biscotti e li ripesca solo quando sono spappolati.
Poi la mamma le mette un vestito, o una gonna con la camicetta, e le calze ricamate. Stamani Bianca vuole mettersi il suo gommino con la fragola; la mamma allora le raccoglie i capelli in una coda, uno zampillo di boccoli. Quando loro due e il papà sono pronti, salgono in macchina vanno in chiesa, perchè – così dice sempre la mamma- la domenica si va alla messa.
In chiesa le luci sono spente, ci sono solo tozze candele bianche accese, e poi c'è un odore stranissimo, un odore che non si sente in nessun altro luogo e che un po' stordisce. Bianca siede tra mamma e babbo. Non arriva a toccare il pavimento con i piedi, perciò durante la funzione sgambetta guardando orgogliosa le sue ballerine di vernice lucida. Torce le gambe in modo da far convergere le punte dei piedi; ora Destra può parlare con Sinistra. Chiacchierano amabilmente – Bianca borbotta il dialogo con due voci diverse- e alla fine Destra tocca Sinistra e si scambiano un bacetto timido mentre il prete comincia a recitare il Padre Nostro.
Poi alza gli occhi e guarda gli angeli e le nuvole dipinte sulle pareti, e pensa che siano davvero belli, e anche i gigli bianchi sull'altare sono belli, e tutte le signore che Bianca riesce a vedere sono vestite bene e truccate. Anche Bianca quando sarà grande si truccherà e avrà i capelli lunghi e prenderà il caffè come la sua mamma.
Dopo la messa vanno sempre a pranzo dalla nonna; nonna Adele le prepara le patatine fritte e le fa trovare le rotelle di liquirizia e le permette di giocare con tutti i ninnoli che tiene in salotto.
Però poi un giorno Bianca vede la mamma stesa sul divano; pensa che stia dormendo, ma quando le si avvicina vede che sta piangendo. Che strano, la mamma non lo fa mai, non l'ha mai fatto. Cosa vuol dire quando la mamma piange?
Il papà prende Bianca sulle ginocchia e le dice che la nonna, quella nonna che le compra la liquirizia, stava tanto male e quindi è andata all'ospedale, ma stava troppo male e il suo cuore era vecchio e stanco.... Il giorno dopo, anche se non è domenica, vanno in chiesa: sono tutti e tre vestiti di nero perché, spiega il babbo, è così che ci si veste quando qualcuno se ne va.
Bianca non capisce: tutti piangono e abbracciano lei e la mamma, figure nere con facce tristi e tanti fiori e in chiesa quell'odore è ancora più forte del solito. La bambina è confusa, è tutto così desolato e malinconico e disperato che comincia a piangere anche lei, singhiozzi e muco. Ha paura. Piange talmente tanto che le entra mal di testa e non ha più fiato. Persone, sconosciuti stringono la mano a sua madre e danno un buffetto sulla guancia alla bambina. Alcuni non parlano e portano gli occhiali da sole; altri dicono “mi dispiace”, “fatti forza” e un'altra parola che Bianca non conosce e che finisce in “- anze”. Fiorenza, la loro vicina di pianerottolo, ha la faccia biancofarina e il naso rosso e il singhiozzo – Oh...oh...pove-ra donnna...hic! App-pena sessssantanni...hic!-. A Bianca scappa uno sbuffo di risata lacrimosa. Quando arrivano a casa – casa, finalmente casa!- mamma le prepara latte caldo e miele, la abbraccia e rimane abbracciata con lei sul divano a guardare la TV.
I giorni seguenti la mamma è ancora triste e non va a lavoro e la domenica mattina Bianca si stupisce perché anziché un abitino mamma le fa indossare una tuta per andare al parco.
- E alla messa, non si va?-.
- No. oggi no-.
Però non vanno nemmeno la domenica seguente, e neanche quella dopo ancora.
- Mamma, ma non ci andiamo più in chiesa?-, chiede Bianca.
- No..-.
- Perché?-.
- Perché non c'è più la messa, Don Luca è andato in vacanza-.
Bianca non risponde, è tutto così diverso. Poi domanda, illuminata – Ma Don Luca quando torna, dalle vacanze?-.
- Ancora, non lo so, pulcino, non lo so proprio...forse, se là sta meglio, non torna più. Chissà-.


venerdì 28 settembre 2012

URLO

"Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla pazzia,
affamate, isteriche, nude
trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa
hipster testadangelo bramare l'antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte,

che povertà e stracci e occhiaie fonde e strafatti
stavan lì a fumare nel sovrannaturale buio di case
con acqua fredda
librati su tetti di città
contemplando jazz"
Allen Ginsberg, Urlo

giovedì 27 settembre 2012

DICHIARAZIONE DI DISAMORE

-Ma io non capisco...-.
Eh, caro mio, non sono in molti ad avere il privilegio di riuscire a capire qualcosa. Non te ne sei ancora accorto?
- Cioè, fino ad un mese fa andava tutto bene, stavamo bene, poi ora....mi dici questo. Dove ho sbagliato? Cosa è cambiato?-.
Ti ho conosciuto meglio, ti ho guardato più attentamente e più da vicino. E quello che ho visto non mi è piaciuto granché.
- Insomma, non sarà per quel messaggio che ti ho scritto il sabato sera...ti ho chiesto scusa, non pensavo che potesse darti così fastidio. Dimmi, è per quello?-
Gesù, che ottusità.
Di fronte alle tue domande incalzanti io continuo a stare in silenzio, seduta, e ti guardo mentre ti trasformi nel mio zerbino. Un cucciolo spaurito che ha bisogno della sua mamma. Che però lo ripudia.
Sospiro. Non so esattamente a che punto della mia vita sono diventata così intollerante a questa passività remissiva, a chi il giogo dell'amore se lo mette al collo spontaneamente.
Non posso, per umana carità, dirti la verità; rispondo appigliandomi a pretesti superficiali, che però riesco ad argomentare con convinzione di fronte alle tue proteste.
- Sì, ma allora che cosa ti aspetti in un rapporto? Cosa?-
Non questo, non questo canto strozzato; è tutto troppo tiepido. Ti devo rispondere che quando ti guardo negli occhi non sento niente – niente. Che vorrei urlare che le tue mani sudaticce, il tuo modo così prolisso di raccontare aneddoti ( perdendoti in mille lungaggini), il tuo goffo e ingenuo senso dell'umorismo ( quello da professore un po' sempliciotto, e gli studenti ridono alle sue tristi battute per cortesia o ruffianeria), il tuo ventre un po' flaccido, non li voglio più santo dio, che se li prenda qualcun'altra, non li voglio. Non ti voglio. E' questo che dovrei risponderti?
Ma tu non ti arrendi, credi di poter identificare il granello che inceppa il meccanismo e poterlo togliere, cosicché l'orologio possa tornare a funzionare. Io invece continuo a boicottarlo, mentre non guardi stacco le lancette e manometto gli ingranaggi.
- Mah, io credo che, se ci si vuole bene, queste cose si possono sistemare, si tratta di venirsi incontro...-.
Io non voglio sistemare un bel niente. Voglio buttare via questa roba stracciata e sgualcita che mi da il prurito. Santo cielo, tu per me dovresti rappresentare la bellezza, la quintessenza del sublime, invece quando ti avvicini a me sento il tuo respiro pesante e vorrei tanto scansare il tuo abbraccio. E poi il tuo tentativo di farti crescere le basette per essere più interessante è semplicemente patetico.
Pa-te-ti-co, capito?
- Ma quindi tu non sei più innamorata di me?
Innamorata? Non lo sono mai stata, di te. Te ne stupisci? Eppure era evidente; non sono mai stata, con te, talmente trasportata dalla potenza del sentimento da genuflettermi ed offrirti il mio misero essere, solo per te.
La lucidità con cui programmavo i nostri incontri e ti mettevo in lista tra le mie priorità e i miei impegni come poteva farti pensare che fosse amore?
Le tue argomentazioni giustificazioni chiarimenti adesso diventano una lagna indistinta, insopportabile per le mie orecchie. Rovisto nella borsa, tiro fuori le chiavi e ne infilo una con decisione nella toppa del portone d'ingresso, voltandogli la schiena. Balbettio confuso alle mie spalle.
- Io adesso devo davvero andare. Sono stanca..-
- Ma dobbiamo finire il discorso, non abbiamo ancora raggiunto un accordo...-
- Buonanotte-.
- Ehi, ma vuoi troncare così?-
- Buonanotte-.
E “buonanotte” è l'unica cosa che continuo a ripetere in risposta alle sue deboli proteste. Dopo che il portone si chiude, escludendolo finalmente dal mio campo visivo, mi sento immensamente sollevata- e leggera.





















mercoledì 26 settembre 2012

LA LETTERATURA E' UNA RAGNATELA TESSUTA DA UOMINI

"La letteratura d'immaginazione non è un sasso che casca per terra, come succede a volte con la scienza; è una ragnatela, legata forse da un nulla, ma comunque legata alla vita, per i quattro angoli. A volte questo legame è quasi impercettibile; le opere di Shakespeare, per esempio, sembrano sospese in completa autonomia. Ma quando questa ragnatela viene distorta, agganciata a un angolo, strappata nel centro scopriamo che non è stata intessuta da una creatura incorporea, bensì che essa è il lavoro di un essere umano, capace di sofferenza, e che si trova legata a cose grossolanamente materiali, come la salute, il denaro, la casa in cui si abita."

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé

lunedì 24 settembre 2012

SARA' L'ETA'

Angela è rinchiusa nel ripostiglio.
Cioè, non è veramente in un ripostiglio, ma è come se lo fosse. E' ermetica e lontana. Si lascia appassire sul letto; non apre l'ombrello , cammina sotto la pioggia. La pioggia non le dispiace.
Però quando entra in casa e sua madre la vede zuppa e grondante si infuria, perché le verrà certo mal di gola e poi perché ha lasciato dietro di sé pedate nere sul parquet appena lucidato.
-Sarà l’età-, dice il padre. Angela ha sedici anni ed è nel fondo di un pozzo. La madre non la può sopportare in questo stato catatonico; la afferra per i polsi e la scuote e urla – PARLA CHE C’E’ CHE HAI PARLA!-. Angela si lascia scuotere e fissa la madre negli occhi: vede un misto di frustrazione e disperazione, paura e amore. Uno sguardo che la supplica di tornare ad essere felice.
Angela è cambiata dalla sera di quella festa di compleanno: un intero locale con barman e dj a disposizione. C’era la musica e c’era tanta gente che ballava rideva e beveva. Anche Angela ballava rideva e beveva. E poi c’era lui. Lui che le ha detto “andiamo fuori, così parliamo meglio”. Hanno passeggiato lì intorno mentre lui si fumava una sigaretta e Angela si perdeva sempre di più nelle sue fossette. Poi un momento di silenzio e l’incontro di sguardi e di labbra.
E poi le mani del ragazzo sono scese dalla nuca di lei ai suoi seni ai suoi fianchi al suo sedere. Fino a che non si sono insinuate sotto il vestito, nei suoi slip. Lei però non voleva, ma lui l'ha spinta contro il muro, le braccia costrette dietro la schiena, impotenti. Angela non voleva, non voleva assolutamente e ogni volta che lui entrava e usciva da lei era una pugnalata nella carne viva e dal dolore ha cominciato a piangere, i muscoli della vagina contratti nel doloroso inutile tentativo di opporre resistenza. Il suo inguine bruciava e anche la gola le bruciava, e lui affondava le unghie nei suoi glutei o le strizzava avidamente i seni. Angela sentiva il rantolo di lui e piangeva per lo schifo, basta in nome del cielo basta!, e lui le premeva la mano sulla bocca e sudava e gemeva.
E lei
         non ha
                    potuto
                                far nulla.
Dopo.
Dopo, con tutta la dignità che la situazione consentiva, Angela si è tirata su le mutande, si è tolta le décolleté ed è corsa in bagno. Il sangue le colava giù per le cosce e la faccia era impiastrata di muco, lacrime e mascara. Si ripulì alla bell'e meglio e chiamò a casa per farsi venire a prendere. Suo padre pensava che fosse ubriaca; un mese di punizione.
Appena a casa, Angela si chiuse in bagno e riempì la vasca. Si guardò a lungo allo specchio senza riconoscersi; cercò su di sé le tracce di quello che era appena successo. Aveva due succhiotti sul collo, del sangue secco tra le gambe, graffi sul sedere. Vomitò; non si era mai sentita tanto sudicia, puzzava di alcol, di succhi gastrici, di pesce. Rimase distesa nell'acqua per un'ora, fino a che le dita delle mani e dei piedi diventarono incartapecorite. Ha continuato a vomitare e lavarsi a fondo anche nei giorni seguenti; non aveva più voglia di mangiare né di avere un corpo. A ben vedere, era stato lui a tradirla.
E quindi langue nel suo bozzolo, cercando una purezza eterea che per ora le sembra inarrivabile.
-Non vuole il pollo né il tonno, non vuole uscire, sta a ore nel bagno...- , esplode la madre.
-Sarà l'età-, commenta il padre studiando gli importi delle bollette di questo mese.
Angela anche oggi ha preso il bus 15C per tornare da scuola, è scesa davanti alle Poste e sta rincasando a piedi. Si sente particolarmente leggera e debole e ha i sensi lievemente offuscati. Realizza di fare fatica a respirare, una vampata di calore la infiamma, la pelle brucia di nuovo, e lei di nuovo sente il peso del corpo di lui che la costringe al muro. Angela suda e sente le mani del ragazzo dappertutto; le tremano le gambe e i polsi, sente il sangue pompare veloce e le impronte di lui sono marchi a fuoco ancora roventi, e lei è solo un buco in cui lui si diverte ad infilarsi....
- Oddio, mi gira la tes...-.
Sipario.

venerdì 21 settembre 2012

L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE

"Non si può mai sapere che cosa si deve volere perchè si vive una volta soltanto e non si può nè confrontarla con le proprie vite precedenti, nè correggerla nelle vite future.Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perchè non esiste alcun termine di paragone. L'uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato."


"L'amore è il desiderio della metà perduta di noi stessi."

"Quando ero piccolo e sfogliavo il Vecchio Testamento raccontato ai bambini e illustrato con le incisioni di Gustave Doré, vi vedevo il Signore Iddio su una nuvola. Era un vecchio, con gli occhi, il naso e una lunga barba,e io mi dicevo che se aveva la bocca doveva anche mangiare. E se mangiava, doveva anche avere gli intestini. Quell'idea mi faceva venire subito i brividi perché io, pur appartenendo a una famiglia più o meno atea, sentivo che l'idea degli intestini di Dio era una bestemmia."

Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere

giovedì 20 settembre 2012

IL CASO E' CHIUSO

Le 11,36 di un martedì di ottobre.
Si era sentita una raffica di spari provenienti da una palazzina in via Togliatti; alla polizia erano arrivate una dozzina di chiamate, voci tra l’allarmato e l’eccitato. Fu subito mandato sul posto il Commissario Salvi.
Quello che lui e i suoi uomini trovarono facendo irruzione nell'appartamento al secondo piano fu: una casa perfettamente in ordine, nessun segno di effrazione a porte né finestre e un cadavere dal petto martoriato da una generosa scarica di proiettili. Il povero diavolo era sdraiato sul pavimento supino, la braccia spalancate come Nostro Signore Gesù Cristo sulla croce.
-Ahiahiahi.....- il commissario si avvicinò al corpo ed esaminò il torace, una poltiglia di sangue semirappreso, cotone misto poliestere e pezzi di interiora. - Devono aver usato una pistola mitragliatrice, forse una Beretta 93R-.
-Commissario, abbiamo trovato i documenti d'identità: Bruno Cozza, nato a Viterbo il 3/07/1962-.
-Sposato? Famiglia?-
-No, celibe-.
-Professione?-
-Impiegato presso le Poste-.
Luigi Salvi si lisciò le sopracciglia e si grattò energicamente il naso.
-Commissario....la gente qua fuori chiede se può essere utile per le indagini....se si deve tenere a disposizione... Cosa gli dobbiamo rispondere?-
Già; il sangue attira sciacalli e avvoltoi, gli stessi che non mancano di fermarsi a leggere ogni nuovo necrologio e che abbassano il volume della TV per sentire il vicino che litiga con la moglie.
-Ai giovani di' di andare a casa, che si diano da fare per rimediare al calo delle nascite; ai vecchi invece dici di smettere di andare contromano in bicicletta. Prima o poi ne tiro sotto qualcuno....-
-Ma signore...-.
-Fusco, cosa vuoi che ti dicano? “Era una bravissima persona, ieri mi ha anche aiutato a pettinare il mio micetto...”, “una buon'anima, tutte le mattine innaffiava le sue piantine di basilico”. Non ho voglia di perdere tempo con le donnicciole!-
L’ispettore continuava a tentennare; era un tipo zelante e preciso sul lavoro, ma apparteneva a quella categoria di persone che non sa dire di no a nessuno. Salvi sbuffò e si rivolse al viceispettore. - Paternò, per amor di Dio, vai tu...-
-Sì, signore-. Vincenzo Paternò, un metro e novanta di freddezza palermitana. Giusto come un limoncello a fine pasto.
-Di' un po', Fusco sei sposato? Fidanzato?-
-Fidanzato, signore-.
-Con la tua donna almeno ci sai stare sopra?-
Il brigadiere arrossì.
L'appartamento era piccolo, il mobilio vecchio, la tappezzeria opprimente; la scala cromatica del salotto andava dal giallo senape al verde salvia e un velo di marrone. Il divano era di similpelle rigida e stinta, su uno scaffale erano raccolte palle di neve, miniature di monumenti e chiese, souvenir fatti con conchiglie e fil di ferro; Salvi attraversò il salotto a grandi falcate e passò nella stanza adiacente. La cucina era ancora più striminzita del salotto; il commissario si avvicinò al tavolo coperto da una tovaglia incerata su cui era poggiata una ciotola portafrutta in ceramica bianca. Salvi si chinò: la frutta era di plastica.
Sul fornello stava la moka ancora tiepida. Aprì gli sportelli della dispensa: tonno e carne in scatola, barattoli di fagioli e di passata, pane in cassetta, cetrioli sottaceto e, Gesù!, crauti e asparagi in lattina. In un cassetto trovò le ricevute di bollette e affitto regolarmente pagati, in frigo un paio di lattine di birra e delle sottilette. Cominciava a deprimersi sul serio.
Dette una rapida occhiata anche a camera da letto e bagno, ma non trovò nulla che non appartenesse ad uno stile di vita mediocre e pressappochista. Copriletto sobrio, vestiti ordinari e leggermente retrò ( pantaloni di velluto a coste, giacche con toppe ai gomiti, pullover extralarge) in un armadio che odorava forte di naftalina, l'armadietto dei medicinali ben fornito di pastiglie contro la diarrea, collutorio e analgesici.
-Commissario....-. Fusco si era materializzato sulla soglia del bagno tenendo nella mano opportunamente guantata una rubrica. - Abbiamo rintracciato la famiglia; una sorella che abita in provincia di Torino, sposata con due figli. Non lo vede da Natale, si sentivano di tanto in tanto e sa poco e nulla della vita privata del fratello.... Poi c'è la mamma novantenne in un ricovero qua vicino. E' affetta da demenza senile da quasi dieci anni-.
-Altri contatti? Colleghi, amici, amanti? Il numero di qualche mignotta?-
-Stanno interrogando i condomini...gli altri numeri in rubrica erano più che altro del dottore, l’elettricista, il dentista...cose così. Utilità-.
-Apparentemente un eremita asessuato, quindi. Impossibile che abbia dato noia a qualcuno, un tipo così. Che giocasse d'azzardo e si fosse inguaiato? Andate a fare qualche domanda nei bar in zona... -
-Sissignore-.
Si diressero entrambi verso il salotto, dove Bruno Cozza e il suo ventre aperto stavano in balia di diverse paia d'occhi. Salvi ignorò il cadavere e si avvicinò invece alla libreria; si stupì nel trovare Schopenhauer, Nietsche, Kierkegaard, Pavese, Sartre. E ancora: Camus, Rousseau, Levi, Ionesco.
Era sinceramente ammirato. Frugò nei cassetti del mobile e trovò taccuini su cui erano meticolosamente registrate tutte le spese di ogni mese da dodici anni a questa parte. – “ Lenzuola in flanella; tachipirina; cena fuori con sig. Rizzo...”- passò in rassegna una pagina di quegli elenchi certosini. In un raccoglitore erano conservati ritagli di giornale: articoli che trattavano di inflazione, potere d'acquisto, passaggio da lira a euro, cambio euro-dollaro. Bruno Cozza, economo nichilista.
Salvi sfilò La luna e i falò e lo sfogliò; passò in rassegna qualche altro volume. C'erano passi sottolineati o segnalati con serpentine e frecce a margine. O con punti esclamativi.
Personalità più interessante di quanto potesse apparire dalle sue scelte in fatto di design d'interni. Mise da parte libri e bloc-notes e si diresse verso il cadavere. Lo guardò bene in viso: il mento e la mascella erano incrostati di sangue, ma sulla bocca era disegnato un lieve sorriso che sembrava, sì sembrava proprio di....sollievo. E le braccia (lo notava solo adesso) erano spalancate come se avesse voluto offrire il petto al suo cecchino. Bersaglio volontario.
Il caso richiese ancora qualche giorno di raccolta di testimonianze e ricerche nelle pieghe del quotidiano della vittima. Incrociando tutti i dati, il blob informe di una possibile soluzione cominciò a prendere forma nella mente del commissario. Salvi attese l'ultima conferma alla sua tesi, poi convocò la sua squadra. - Caso Cozza- esordì. - Nessun tentativo di furto o scasso, nessun conto da regolare, un tipo che non ha molestato la figlia o la moglie di nessuno, che sembra non avesse nemici né amici, quindi apparentemente nessun movente. Regolare conto in banca, né congruo né esiguo, affittuario e condomino tranquillo e puntuale nei pagamenti, scapolo incallito. Perché lo dovresti ammazzare, uno così?-. 
-Per pietà....-. Ridacchiare sommesso.
-Più o meno era che volevo arrivare, Iodice. Non c'è colpevole, e anche se ci fosse, non lo troveremo mai. Il carnefice in realtà è un benefattore: Bruno Cozza voleva morire. Si faceva pietà da solo, proprio pietà; era talmente impantanato nella mediocrità e nell'insoddisfazione che poteva decidere se continuare a galleggiare come aveva fatto fino ad allora, oppure se lasciarsi andare a fondo, perché alla fin fine era meglio così-.
Si sollevarono obiezioni a questa ipotesi, era semplicemente grottesca. C'erano magari elementi che erano sfuggiti loro o piste che non avevano considerato. Sicuramente si poteva arrivare ad un risultato più logico, più accettabile....
- Cozza voleva morire- ripeté il commissario con decisione, - Era un uomo oberato dalla preoccupazioni economiche, viveva nelle riflessioni filosofiche dei suoi libri che leggeva in un salotto che era la quintessenza dello squallore, mangiava da solo cibi in scatola.....e sorrideva mentre gli sparavano, capite? Sorrideva-. Sostenne gli sguardi increduli dei suoi sottoposti.- Ma voi credete pure quello che volete; per me, il caso è chiuso-.

martedì 18 settembre 2012

PASTA AL PESTO



                                                           Another love song

Per E.

 
Lui e Lei non sono mai destinati a stare insieme. Non importa se si amano davvero; prendete “Casablanca”, ad esempio. Il vero amore esiste solo nelle commedie romantiche con Meg Ryan. Questo mi hanno insegnato 28 anni di vita su questo pianeta, questo e che non bisogna mettere la moka in lavastoviglie. Specialmente se le siete affezionati.
E’ quasi ferragosto; per stasera è in agenda una riunione chez moi per organizzare un falò sulla spiaggia. Dalla parete, Kim Basinger mi lancia uno sguardo languido; Dio, quant’è gnocca in 9 settimane e ½.... Mi sdraio sul divano canticchiando a mezza voce “You can leave your hat on” e cado addormentata.
Mi risveglio nel panico, con un pungente sapore metallico in bocca e la convinzione che sia tardissimo. Sguardo al display del cellulare: 19,30. A che ora arrivano? “Alle otto”, mi rispondo.
E’ tardissimo.
Be’, io adoro fare le cose di fretta; è come se lanciassi una sfida al tempo. E quando è lui a vincere, io perdo il treno o prendo una multa per eccesso di velocità. Stasera finiamo in pareggio.  Quando suonano alla porta i miei ricci sono ancora umidi e mi sono passata il kajal solo sulla palpebra destra. Però l’incenso arde silenziosamente in salotto, i posacenere sono svuotati e non indosso più la t-shirt dei Metallica.
Non conosco tutti; ci sono un paio di amici di amici chiamati per fare numero. Da brave carogne, tendiamo ad evitare di includere le coppie. Che se ne stiano pure a pomiciare sul loro divano, perdio.
Si stappino le birre, che la seduta abbia inizio. Dapprima c’è la solita caciara di idee inconcludenti, con la piattola di turno che deve trovare questioni e cavilli su cui continuerà a insistere fino alla sera del falò, con quel gusto per il dettaglio nanoscopico di ingegnere termonucleare. Mi accendo una sigaretta. Bado ad aspirare profondamente, a trattenere il fumo in bocca e a soffiarlo fuori piano piano, lentamente, formando rivoletti bianchi. Detesto le questioni pragmatiche ; le minuzie organizzative mi annoiano.
Dopo un’ora si è deciso chi porta la sangria, chi la legna, chi la chitarra e via discorrendo. La comitiva comincia a dileguarsi, un tripudio di saluti, bacetto-bacetto sulla guancia e scalpiccio di passi che si allontanano giù per la tromba delle scale. Rimane la desolazione delle bottiglie ambrate abbandonate sul tavolo, pacchetti di Pall Mall vuoti, un accendino verde scarico. Però lui indugia.
E’il solo a non essersene ancora andato; sta guardando le varie locandine cinematografiche appese con interesse ( vero o simulato, difficile a dirsi). Mi sembra di ricordare che lui sia il tipo che suona la chitarra.
-         Ti piace il cinema francese?-
-         Come?-. Mi prende talmente in contropiede che, nonostante abbia sentito perfettamente quello che ha detto, non riesco a cavarne fuori il senso.
-         Ti piace il cinema francese?
-         Ah....sisì, ma non lo conosco bene... non bene come quello italiano o americano-.
-         Hai mai visto Jules e Jim?-
-         No-.
-         Guardalo. Lo adorerai-.
-         Ah be’...grazie...chi è il regista?-.
Mentre lui disquisisce su Chabrol, appunto lo sguardo sul suo ciondolo di legno e sulle piccole lentiggini che puntellano naso guance braccia e gambe. La voce di questo estraneo (Gesù, com’è che si chiama??) riempie le stanze, si impone, diventa solida e tangibile. Meccanicamente comincio a togliere le birre vuote dal tavolo. Con movimenti lenti e senza smettere di guardarlo. Si avvicina prontamente a me e afferra lesto le bottiglie rimanenti. Anche io torno a muovermi a velocità normale- qualcuno deve aver tolto il fermo immagine.
Ormai sono le nove e mezzo passate. Le ultime gocce di sole si sono asciugate.
-         Avevi programmi per stasera?-. Getta nel pattume l’ultima lattina.
-         No, non sapevo quanto ci avremmo messo ad organizzare....e tu?-.
Scuote la testa riccioluta, si gratta la nuca. – Non proprio, forse uno spritz al bar e poi film. Roba così-.
Annuisco. Cosa dovrei fare o dire ora da copione? Se ne vuole andare? E io voglio che se ne vada? Mi figuro la scena: dopo averlo liquidato con una banalissima scusa x, richiudo la porta alle sue spalle, mi giro e vago per le stanze vuote. Avrò la libertà di stropicciarmi gli occhi impiastrandomi i polpastrelli di nero e sbavando il trucco. Tuttavia avverto una desolata tristezza, come dopo che hai ingoiato l’ultimo boccone di torta e raschi il piatto per raccogliere i rimasugli di pasta frolla e crema. Oppure come quando, da bambini, una festa di compleanno finisce e si rimane soli con i palloncini mezzi sgonfi, gli incarti e i nastri dei regali dimenticati in un angolo, vassoi semivuoti di tramezzini e pizzette sbocconcellate.
E allora sento la mia voce articolare una domanda; sì, perché non mi va di piangere sulla nostalgia degli avanzi. – Ti va di mangiare qualcosa?-.
- Volentieri. Andiamo fuori? Pizza?-.
- Mhmm....-. Apro il frigo. Tre lattine di Guinness e un barattolo di pesto.- Pasta al pesto? Ti va?-.
- Perfetto-.
Tra i vapori dell’acqua bollente a l’odore di basilico esploriamo l’uno la vita dell’altro. Alessio, ecco come si chiama. Rimasto con me per un piatto di pastasciutta. Non se n’è più andato.