"A volte parlava talmente piano che lo si capiva a stento, poi si metteva ad urlare in mezzo alla strada. "Sono così sensibile, così terribilmente sensibile". I primi tempi ero imbarazzato, ma lui non voleva in mezzo ai piedi persone che si vergognassero del suo comportamento. La gente timida gli stava sulle palle",
Aron Grunberg
domenica 2 dicembre 2012
mercoledì 28 novembre 2012
IL POSACENERE
Non credo più in Dio, nell'amore o nel
karma. Credo che vadano regolarmente tagliate le doppie punte e mi
fido solo del display contacalorie del tapis roulant. Non riesco più
ad arrivare a mio marito; o parliamo in due lingue diverse oppure,
quando riusciamo ad usare una lingua franca, discutiamo di cose
disgustosamente futili.
A cena tenevamo la tv rigorosamente
spenta; ora mi preoccupo di accenderla perchè ci sono stati dei
pasti in cui il silenzio era assordante- lo scroscio dell'acqua
versata nel bicchiere riecheggiava in tutto l'appartamento- e
consumavamo le pietanze in fretta, come bestie che grufolano nel
trogolo.
A casa ho sempre freddo. Ho trovato
pretesti per starci il meno possibile; dopo il lavoro vado in
palestra. Più grassi brucio, più mi sento realizzata come donna.
Eppure una volta ero una persona migliore. Sinceramente non so
quando ho cominciato ad imputridire; adesso mi ritrovo con le unghie
al gel limate e smaltate dall'estetista e non me ne importa niente.
Sfilo le banconote dal borsellino e pago la parrucchiera, e mi sento
patetica. Non bella.
Stasera c'è una cena di lavoro, io e
le mie colleghe andiamo in questo ristorante à la mode
e, mentre aspettiamo le portate, prendiamo un aperitivo al bancone.
L'ambiente è in semioscurità, fluorescente ed ammiccante, tutte le
donne portano scarpe con tacchi vertiginosi e plateau e le pareti
ospitano collezioni di fotoamatori. L'effetto polaroid pare sia di
gran moda.
Mi
appoggio sul banco e urlo “UN PROSECCO!” nell'orecchio del barman
pelato. Due tipi avvenenti siedono in cima agli sgabelli,
proprio di fianco a noi. Uno mi guarda, anzi mi fissa, poi mi
sorride; si alza e si avvicina. Mi approccia con una sicurezza che
sfiora l'arroganza e la presunzione. Me ne sto lì di fronte a lui ad
aspirare avide boccate di Armani Code e a osservare le labbra carnose
che si aprono e si chiudono al di sopra di una dentatura da pubblicità Colgate. Mi
sento sempre più arrendevole e realizzo di provare l'indecente
desiderio di leccargli la mascella perfettamente rasata.
Ci rincontriamo dopo che le nostre cene
sono finite. Mi propone di andarcene a bere un amaro da qualche altra
parte; io dico ok, va bene. Così mi ritrovo a flirtare sul
divanetto di un wine bar senza sensi di colpa, anzi con una
soddisfazione perversa. E i brividi quando mi sfiora i capelli.
Ma la femme fatale muore all'uscita dal
locale; montiamo in macchina sua e non perde un attimo a prendermi
per la nuca e baciarmi. Sento guizzare in bocca la lingua di questo
sconosciuto e sento di non volerlo, non ci voglio entrare in questa
terra incognita vestita di
buona sartoria. Lo scosto bruscamente, scendo, vado a grosse falcate
verso la mia macchina; dietro di me lui mi chiama indietro, ride, si
infuria, comincia a gridarmi svariati insulti (frigida,
puttana.....be' deciditi!).
Non lo guardo
finché non ho messo in moto la vettura. Guido allucinata: prendo le
curve larghe e in velocità e sento il vino sciabordare nello
stomaco. Mentre aspetto al semaforo, mi accendo una sigaretta. Un
regista che, dopo la prima, si accorge che il suo nuovo film è una
clamorosa cagata deve sentirsi così, suppongo. Riparto: la cenere si
sparge su sedili, cappotto e tappetini, la nicotina mi arriva subito
al cervello e entra di forza nello stomaco. Sono, fisicamente e
metafisicamente, nauseata.
A casa scappo
subito in bagno a rimettere: appoggio i gomiti sulla tazza e ascolto i
disgustosi risucchi e rantoli che la mia bocca produce. Entra Leo in
pigiama:- Ehi....che hai? Ti ha fatto male la cena?- .
Sputo una boccata.
- E' uno schifo... davvero, uno schifo-.
- Cos'è
che può averti dato noia?-. Mi giro a guardarlo; se ne sta sulla
soglia, ben lontano da quella massa malconcia e maleodorante che è sua
moglie. Io mi pulisco la bocca con la mano (sempre meno
dignitosamente) – Noi...noi siamo diventati schifo. Così..così..-
indico lo spazio che ci separa.
A fatica mi rialzo. Lui risponde – Sei ubriaca?-.
Scuoto la testa e
avanzo piano verso il salotto. - Dimmi che non è vero... Dio, è
insostenibile. Insostenibile-.
Mi butto
stancamente sul divano. Leo non risponde, si avvicina alla finestra e
prende una sigaretta. Lo fisso fumare e tacere, e ogni attimo di quel
silenzio ostinato mi esaspera sempre di più, sempre di più. Le
labbra si schiudono solo per espirare fumo, non emettono suoni. In
fondo la sua figura non è tanto più estranea del Signor Armanicode,
adesso. E questo pensiero è uno squarcio nel ventre, e io sono
esausta e ho la bocca impastata di rancido e lui non mi dice cosa
cazzo gli passa per il cervello. Dietro la barricata del mutismo, si
mette. Ma parla, per Dio, articola, esterna, esprimiti!
Mi lancio verso di
lui, afferro la mano che ormai regge il mozzicone, mi arrotolo la
manica della camicia e, ficcando i miei occhi nei suoi, scandisco :-
Vuoi fare una cosa per me, eh, vuoi? Se mi ami.... ascoltami e
guardami, se mi ami, spegnimi questa sigaretta sul braccio. Sì,
qua-.
- Ma che dici?
Ti faccio male, scema.... stenditi un altro po', dai -.
- Ti giuro che
fa più male questo tirare a campare-. Ostento il braccio nudo davanti a lui. Che sbatte le palpebre. Nient'altro.
- Gesù, te lo sto chiedendo io, spegni quella cazzo di sigaretta sul mio braccio! -.
- Gesù, te lo sto chiedendo io, spegni quella cazzo di sigaretta sul mio braccio! -.
- Non ha senso-.
- Spegnila!-
Leo si volta, afferra dalla libreria un dischetto in similvetro massiccio blu. Cerca di ridere. – Sei matta....questo l'hanno inventato apposta-. E preme il mozzicone sul fondo del posacenere.
- Spegnila!-
Leo si volta, afferra dalla libreria un dischetto in similvetro massiccio blu. Cerca di ridere. – Sei matta....questo l'hanno inventato apposta-. E preme il mozzicone sul fondo del posacenere.
domenica 25 novembre 2012
sabato 24 novembre 2012
CANTILENA DI NATALE
Guardiamoci intorno; sono gli inizi di
novembre e già spuntano abeti e renne per le strade. Bella storia,
il Natale. La manovra commerciale più redditizia dell'anno. Sono
cinico, dite? Forse. Ma mi sembra molto difficile credere che i
produttori di panettoni badino a mettersi così per l'avanti solo per
la salvezza delle nostre anime. Basta leggere gli ingredienti sul
retro della confezione: farina, burro, zucchero, uova fresche, uva
sultanina, lievito di pasta madre, scorze di agrumi candite, sale ,
sciroppo di zucchero invertito,sciroppi di glucosio o di
glucosio-fruttosio, mono e digliceridi degli acidi grassi, acido
sorbico .
L'ultima vigilia di Natale mi sono
chiuso in casa a tapparelle abbassate e ho guardato Dracula di
Bram Stoker, Miriam si sveglia a mezzanotte e
Nosferatu il principe della notte di
fila.
Non so, un tempo mi
piaceva canticchiare Jingle Bells e fare biscotti da regalare, e
decorare l'albero con bastoncini di zucchero. Poi però la vita ti
insegna a disilluderti e diffidaree smetti di credere a chi ti dice
“dai, risentiamoci per vederci una di queste sere”. Quelli non
scombineranno mai le geometrie perfette del loro planning per te. Ma
ti telefoneranno se ti succede una disgrazia, di questo si può stare
certi. Se poi di mezzo ci sono donne o soldi, aspettati di tutto,
specie se ti viene detto che è una “questione di principio”. Il
principio è un paravento dietro cui si nasconde la brama di moneta
sonante, un concetto di comodo. Per questo non credo nel buonismo
candito, me ne vado in giro con lo sguardo torvo e grugnisco vedendo
che il mondo comincia già a ricoprirsi di glassa natalizia. Quando
ero un ragazzetto, mi faceva compassione vedere che c'era gente che
doveva lavorare anche il 25 Dicembre; primi fra tutti gli autisti di
autobus. Osservavo la desolazione delle vetture vuote mentre andavamo
a pranzo dalla nonna, e pensavo al povero conducente che doveva
trottare tutto il giorno per la tratta urbana praticamente a vuoto.
Forse saliva qualche vecchietta o il solito povero diavolo
avvinazzato.
Mi stupiva poi il
fatto che, nonostante fosse Natale, andasse in onda il Tg : a chi
potevano interessare gli affari di politica estera e interna, quel
giorno, intontiti come si era dal sugo grasso delle lasagne? A ben
pensarci inoltre, anche il mezzobusto con la cravatta e la
scriminatura da una parte stava lavorando in un giorno festivo. E
anche i cassieri del cinema; c'era un'intera schiera di invisibili
che pedalava nell'ombra mentre la maggioranza se ne stava in
panciolle.
Adesso anch'io
lavoro per Natale: è il regalo migliore che possa farmi. I miei sono
anziani, mezzi sordi e spesso in preda a raptus di demenza senile; a
volte mi scambiano per il fratello che non ho. Per le feste comandate
mi rendo disponibile l'intera giornata; faccio il barista e, mentre
monto il latte per il cappuccino, osservo l'umanità al di là del
bancone. Sorprendente come i nostri stomaci non siano mai sazi: ho
rilevato questa sorta di bulimia sociale per cui, non importa quanto
agnello sua suocera gli abbia preparato, l'Uomo Medio alle diciotto
ordina un crodino e si abbuffa di noccioline e pizzette. Dio benedica
l'happy hour.
Ma per me è
sicuramente più edificante rimpinguare il mio conto in banca
servendo tè a signori in tweed e sbirciare nei Natali altrui
piuttosto che abbrutire su qualche divano di fronte ad un teleschermo
che trasmette in loop film con renne parlanti, babbi natali in
pericolo e bimbi americani pedanti. Sarebbe talmente deprimente che
finirebbe senz'altro a taralli e vino. Pochi taralli e molto vino.
Nel giorno in cui nasce Gesù Bambino meglio essere zelanti
lavoratori che ubriachi molesti, giusto?
martedì 13 novembre 2012
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Eugenio Montale
giovedì 8 novembre 2012
LANGUORE
Sono l'lmpero al limite estremo della decadenza,
Che componendo acrostici indolenti
Con stile d'oro, ove danza il languore
Del sole, guarda passare i gran Barbari bianchi.
L'anima soletta ha male al cuore di noia densa.
Vi sono laggiù, si dice, lunghe battaglie cruente.
Ah non potere, io così fiacco, dai voti così lenti,
Non volervi fiorire un po' questa esistenza!
Ah! non volervi, non potervi un poco morire!
Ah! tutto è bevuto! Batillo, la smetti di ridere?
Tutto è bevuto, mangiato! Più niente da dire!
Solo, una poesiola un po' ingenua da buttare nel fuoco,
Solo, uno schiavo un po' donnaiolo che vi trascura,
Solo, una non si sa qual noia, che vi tortura!
Paul Verlaine
Che componendo acrostici indolenti
Con stile d'oro, ove danza il languore
Del sole, guarda passare i gran Barbari bianchi.
L'anima soletta ha male al cuore di noia densa.
Vi sono laggiù, si dice, lunghe battaglie cruente.
Ah non potere, io così fiacco, dai voti così lenti,
Non volervi fiorire un po' questa esistenza!
Ah! non volervi, non potervi un poco morire!
Ah! tutto è bevuto! Batillo, la smetti di ridere?
Tutto è bevuto, mangiato! Più niente da dire!
Solo, una poesiola un po' ingenua da buttare nel fuoco,
Solo, uno schiavo un po' donnaiolo che vi trascura,
Solo, una non si sa qual noia, che vi tortura!
Paul Verlaine
mercoledì 7 novembre 2012
MI INCHINO DI FRONTE ALL'ARTE, MA SULL'IGIENE NON SI TRANSIGE
Non so precisamente quanti giorni sono
rimasto chiuso là dentro.
Non mi importava granchè di contare le
ore e pensare di affrontare il fuori mi atterriva. Il fuori:
permesso scusi, semaforo rosso, semaforo verde, clacson, prenda il
numero e aspetti il suo turno, buongiorno vorrei... - sì sono
dieciecinquanta, faretti manichini insegne, cani che pisciano.
Non avevo abbastanza energia per tutto
questo.
Volevo solo la mia stanza, le tende
tirate secondo necessità e l'odore di acrilico. Inoltre avevo avuto
l'Idea e dovevo inseguirla subito, non potevo interrompere per, che
so, andare al supermarket. L'Idea è volubile e caduca come il bel
viso di una sconosciuta per strada: ci devi tenere gli occhi addosso
finché puoi, perchè poi scomparirà per sempre.
E quindi mischiavo i colori secondo i
dettami della Musa e non guardavo l'orologio; di tanto in tanto mi
facevo un tè o un caffè e nell'appartamento i due aromi si
fondevano, e io cercavo l'overdose aprendo un vasetto di curry o
annusando il legno di una matita.
Ogni stimolo sensoriale confluiva
nell'Idea; mi lasciavo suggestionare anche dalla cosa più
insignificante – perché è così che si hanno le intuizioni più
geniali. E quando il corpo comincia a dare segni di fame o
stanchezza, allora il cervello è ancora più sensibile. Io
approfittavo di questo stordimento per cambiare prospettiva,
una lente deformante che mi rivelava nuove visioni. Per esempio
l'altra sera ero sfibrato e mi sono affacciato alla finestra e vedere
i tetti illuminati dall'alone arancia dei lampioni e le luci vicine e
lontane delle finestre e la luna che galleggiava in alto, be' mi ha
lasciato senza fiato. Mi sono buttato a dormire sul divano poi e ho
fatto sogni grotteschi e incalzanti e mi hanno svegliato pungenti
crampi allo stomaco. Alzandomi il pavimento si è inclinato e io ho
barcollato fino alla dispensa. C'erano Simmental e fagioli. Svuotai
entrambi i barattoli in una casseruola buttandoci olio e pepe ( ecco
che un velo di fumo si sollevava, tulle bianco che avvolgeva manzo in
gelatina).
Ho lavorato senza requie credo per i
due giorni successivi; tutto quello che vedevo erano le mie mani
(chiazze di pigmento rapprese sulla pelle e sotto le unghie) che
pennellavano la tela ed era sempre più difficile distinguere dove
finivo io e dove cominciava il quadro. Fino a che io ero
il quadro, ero nel
quadro, ero colore e le dita che l'hanno partorito. Era finito e io
non riuscivo a non guardarlo ( veramente quella tela era stata
bianca?) a non perdermi nei dettagli negli intrecci delle sfumature
nei punti di luce nei chiaroscuri. Cantava con le voci di Caravaggio,
Boldini, Klimt, Turner, Modigliani, Chagall..... Mi inginocchiai
davanti al quadro, mi sdraiai ai suoi piedi fissandolo da sotto in su
piangendo spossato – e Botticelli e Gaugin danzavano un valzer.
Dopo ricordo l'urlo
penetrante di mia sorella e la sua figura gettata di slancio su di
me. La tranquillizzai cercando di rialzarmi con disinvoltura, ma il
suolo era diventato di nuovo di gelatina. Mi afferrò per il braccio
e mi fece sedere.
- Gesù, ma che
hai combinato? Puzzi come un cane bagnato!-. Federica studiò il
tegame rimasto appoggiato su una pila di libri dal giorno prima.
- Lavorato;
ho finito quello –
indicai – ieri notte-.
- E come sei
finito a pelle d'orso sul pavimento?-.
- Boh....mi sarò
addormentato...-.
-Per terra?!-.
Feci spallucce,
avrei voluto parlarle dell'Idea, ma lei incalzò: coshaifatto,
haimangiato, daquantotempononescidicasa, parole parole parole. Lei
non commentava, ma mi guardava con il sopracciglio destro inarcato in
un'espressione che mi ha sempre messo in soggezione.
Si accese una
Marlboro e, tenendola elegantemente tra indice e medio, si grattò la
fronte con il pollice – Ma perché fai così? Non ti riesce avere
degli orari, dei ritmi normali? -.
Dio,
quanto odio quella parola! Mi ingrugnii – Che vuol dire, normali?-.
Biascicai e risputai l'aggettivo come fosse carne rancida.
- Come tutti,
che lavorano un tot di ore, poi si fermano e si fanno una doccia e
vanno a fare la spesa ; Cristo, ma alla tua età vivi ancora di roba
in barattolo! Ma ti rendi conto?-.
La guardai; era
bellissima. O forse a me sembrava bellissima solo perché era mia
sorella. Sta di fatto che la poesia dei suoi capelli raccolti ( ma
dei ciuffi sfuggivano e le incorniciavano il viso) e del naso
all'insù e delle sottili labbra a cuore mi deliziò nonostante
stesse pronunciando quella che per i miei timpani era una sequela di
eresie.
Ciccò in una delle tazzine sparse per
casa e finì la sigaretta in silenzio. Fissava intensamente il
quadro. Sospirò, e nell'ultima boccata di fumo c'era la sua
preoccupata disapprovazione.
- E' geniale-. Lanciò uno sguardo
obliquo alla mia camicia di jeans sgualcita e macchiata e lisa. - E'
incredibile: tu, quello che mi ha vomitato sui piedi a Capodanno,
che intingeva i cetriolini nella nutella e che ho visto piangere
smoccicando centinaia di volte.....be', hai fatto questo-. Si
passò dietro l'orecchio la ciocca ribelle, lisciandola più volte.
- Se anche ti decidessi a darti una raddrizzata, a essere un po'
più....regolare nei ritmi di vita....-.
Mi appoggiai allo schienale del divano
e da molto lontano, stancamente, risposi – Io non pretendo di
insegnarti a vivere; perché tu vuoi farlo con me? Perché non posso
stare così e fare quello che mi rende felice? Io sono quello che
sono: perché non puoi, semplicemente, accettarlo?-.
Improvvisamente mi sentii vecchio e
rugoso, avevo voglia di piangere e dormire. Mi raggomitolai in un
cantuccio del divano e chiusi gli occhi. Io non parlavo, lei non
parlava. La sentivo respirare. Si schiarì la voce. - Dai, vieni a
pranzo da me,così mi racconti di quest'ultimo parto....però prima
fatti una doccia calda, per amor del cielo-. Mi prese per mano (una
mano spalmata di crema alla mandorla e aloe, pelle liscia e fedina
d'orobianco all'anulare); quando ho dischiuso le palpebre, l'ho
rivista nei suoi vent'anni che mi chiedeva se poteva prendere in
prestito il mio gilet di camoscio.
- Su, doccia; mi inchino di fronte
alla tua arte, ma sull'igiene non transigo-.
Mi alzò strattonandomi; ho dovuto
obbedire.
lunedì 5 novembre 2012
HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue. ”
Eugenio Montale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue. ”
Eugenio Montale
venerdì 2 novembre 2012
AL LETTORE - DA BAUDELAIRE CON AMORE
Al lettore
L’errore la stoltezza il peccato l’avarizia
occupano i nostri spiriti, sfibrano i nostri corpi,
e noi alimentiamo amabili rimorsi
come i mendicanti nutrono i pidocchi.
Testardi nel peccare, vigliacchi nei pentimenti,
con laute ricompense confessiamo le nostre colpe
e sereni rientriamo nel cammino fangoso
credendo che vili lacrime ci lavino dalle macchie.
Sul guanciale del male c’è Satana Trismegisto
che culla lungamente il nostro spirito incantato
e, sapiente alchimista, riesce a evaporare
il ricco metallo della nostra volontà.
È il Diavolo a tenere i fili che ci muovono!
Negli oggetti ripugnanti troviamo la bellezza;
discendiamo di un passo ogni giorno verso l’Inferno,
senza orrore, attraverso tenebre puzzolenti.
Come un povero debosciato morde e carezza
il seno martirizzato di una vecchia puttana,
noi rubiamo al volo un piacere clandestino
e lo spremiamo con forza come una vecchia arancia.
Serrati, formicolanti, come vermi a milioni,
popoli di Demoni ci gozzovigliano nei cervelli,
e quando respiriamo, con sordi lamenti,
il fiume della morte ci scende nei polmoni.
E se stupro, veleno, pugnale ed incendio,
non hanno ancora intrecciato dolci ricami
sulla tela banale dei nostri destini,
è che l’anima nostra non è abbastanza ardita.
Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le linci,
le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti,
mostri urlanti, ruggenti, striduli, rampanti
nel serraglio infame di tutti i nostri vizi,
Ve n’è uno più brutto, più cattivo, più immondo!
Benché non si riveli con gesti o con grida
farebbe volentieri della terra un rottame
e solo sbadigliando inghiottirebbe il mondo:
È la Noia – occhio carico di lacrime involontarie
sogna impiccagioni fumando il suo houka.
Tu, lettore, conosci questo mostro incantevole
– ipocrita lettore – mio simile – mio fratello!
L’errore la stoltezza il peccato l’avarizia
occupano i nostri spiriti, sfibrano i nostri corpi,
e noi alimentiamo amabili rimorsi
come i mendicanti nutrono i pidocchi.
Testardi nel peccare, vigliacchi nei pentimenti,
con laute ricompense confessiamo le nostre colpe
e sereni rientriamo nel cammino fangoso
credendo che vili lacrime ci lavino dalle macchie.
Sul guanciale del male c’è Satana Trismegisto
che culla lungamente il nostro spirito incantato
e, sapiente alchimista, riesce a evaporare
il ricco metallo della nostra volontà.
È il Diavolo a tenere i fili che ci muovono!
Negli oggetti ripugnanti troviamo la bellezza;
discendiamo di un passo ogni giorno verso l’Inferno,
senza orrore, attraverso tenebre puzzolenti.
Come un povero debosciato morde e carezza
il seno martirizzato di una vecchia puttana,
noi rubiamo al volo un piacere clandestino
e lo spremiamo con forza come una vecchia arancia.
Serrati, formicolanti, come vermi a milioni,
popoli di Demoni ci gozzovigliano nei cervelli,
e quando respiriamo, con sordi lamenti,
il fiume della morte ci scende nei polmoni.
E se stupro, veleno, pugnale ed incendio,
non hanno ancora intrecciato dolci ricami
sulla tela banale dei nostri destini,
è che l’anima nostra non è abbastanza ardita.
Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le linci,
le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti,
mostri urlanti, ruggenti, striduli, rampanti
nel serraglio infame di tutti i nostri vizi,
Ve n’è uno più brutto, più cattivo, più immondo!
Benché non si riveli con gesti o con grida
farebbe volentieri della terra un rottame
e solo sbadigliando inghiottirebbe il mondo:
È la Noia – occhio carico di lacrime involontarie
sogna impiccagioni fumando il suo houka.
Tu, lettore, conosci questo mostro incantevole
– ipocrita lettore – mio simile – mio fratello!
giovedì 1 novembre 2012
L'ARTE DELL'ATTESA
La solitudine è una brutta bestia. Un
pezzo di formaggio muffito in frigo. Per cercare di sopportare mi
sono svenduta a tipi decisamente mediocri. Nuovi numeri in rubrica da
chiamare, diversi aromi di dopobarba, corpi più o meno glabri. La
mia nausea però non passava. Vivevo di briciole d'illusione, parlavo
allo specchio, scrivevo messaggi che avrei voluto ricevere, mitizzavo
e mi lasciavo spogliare. Che squallore. Mi convinsi di avere problemi
di dipendenza dal sesso, presi appuntamento da uno psichiatra. Quasi
ci speravo, di venire bollata come erotomane: avrei elemosinato un
po' di psicofarmaci e avrei raggiunto il nirvana. Mentre sedevo in
sala d'aspetto, continuavo ad abbassarmi la gonna, tirandola per
coprire le ginocchia.
Mi immaginai di entrare e beccare il
dottore a pippare cocaina come il vecchio Sigmund. Invece mi aprì la
porta dello studio, mi fece accomodare a sedere e io cominciai a
parlare aggrappandomi all'orlo della sottana. La diagnosi non fu
niente di eclatante: avevo solo fame. Ma non una fame qualunque che
si potesse saziare con un tramezzino stantio o una merendina; era una
voglia di qualcosa di esotico e sublime, ancestrale, una fame che non
ti lascia dormire per i crampi allo stomaco – una bocca eternamente
spalancata che ruminava saliva. E' normale seguire gli istinti, mi
disse, è sano, anche se ovviamente un po' rischioso.
Niente antidepressivi.
Mi misi a digiuno. Non permisi più a
nessuno di accarezzarmi i capelli. Avevo notato che le mani delle
maggior parte delle persone erano sudice.
E poi successe; nemmeno ci sfiorammo,
la prima volta che ci siamo incontrati. Eravamo nel dehors di un
tipico Irish pub e io lo guardavo gesticolare mentre parlava. Muoveva
il polso flessuosamente e usava espressioni tipo “come se non ci
fosse un domani”, “ putacaso”, “al che gli faccio....e lui mi
fa...”, “che mentecatto!”. Quando finii la mia Beck's, mi alzai
e lo salutai con un cenno di testa e un sorriso. Me ne andai con il
suo profumo nelle narici e il ventre caldo. Superfluo
dire che ci rivedemmo ancora e ancora; la Grande Fame cessò.
Amavo ed ero amata.
Tuttavia mi ha lasciata. Non voleva, ma
ha dovuto farlo.
Ma non se n'è andato del tutto: una
parte di lui è rimasta qui, tangibile e viva, e ora dorme nel mio
letto. Mi ha lasciato in dono questa splendida creatura. Tre anni fa,
per qualche strano meccanismo del destino ( che si è bellamente
beffato dello zelo con cui io assumevo la pillola), sono rimasta
incinta. Lui era stato abbandonato da un padre violento a dieci anni,
se l'era filata dopo aver picchiato la madre per l'ultima volta, dopo
averla battuta e schiaffeggiata e lasciata sanguinante e semi
incosciente. Da quel giorno l'idea della paternità lo terrorizza.
Per questo non poteva rimanere con me.
Non sono arrabbiata con lui; insieme
eravamo felici e completi. Avremo potuto continuare ad esserlo,
certo; lui avrebbe potuto affrontare la sua paura, guardarla nelle
palle degli occhi e prenderla per i testicoli. Forse sarebbe andata
bene. Forse. Ma tanto con le subordinate ipotetiche non si cambia il
mondo.
Quando guardo la mia bimba, vedo lo
stesso sguardo ambrato di lui e allora la bacio e per me è come se
stessi baciando anche lui. Siamo uniti nell'inscindibile miscuglio
genetico di nostra figlia. Nostra figlia:
nessuna poesia può raggiungere il picco di bellezza di questo
binomio possessivo-sostantivo.
Oggi l'ho portata
con me a fare la spesa e le ho comprato la sua prima scatola di
pennarelli: abbiamo passato il resto del pomeriggio a disegnare e
adesso dorme. Ha le mani e il muso inzaccherati di colore e il
ciuccio ben saldo nel pugno destro. Scivolo a prendere la macchinetta
e le scatto diverse foto. La luce batte sul volto in modo splendido,
caravaggesco: le ciglia lunghe gettano la loro ombra sulle guance.
WELCOME TO THE JUNGLE, WE GOT FUN
AND GAMES....
Mi lancio sul
cellulare prima che la bimba si svegli, metto male il piede e
rispondo sbattendo contro la libreria. - Pron-ahi, pronto?-.
- Ehi,
ciao...Ahem, senti non riattaccare, io è da un po' che volevo
chiamarti e ci ho...sì insomma ci ho pensato tanto, quindi se
potessi ascoltarmi...solo ascoltare un attimo...-.
Gesù! Mi
genufletto sulla moquette e mi raggomitolo contro il mobile
aggrappandomi al telefono e mordendo le nocche per non fargli
arrivare i singhiozzi.
- E' che...ecco
io mi chiedevo.... potrei - potrei vedere la bambina? Ti porto anche
un po' di soldi, eh, ci mancherebbe... Ho trovato un lavoro lì da
voi, a Lucca, e quindi sono tornato....ma volevo farlo comunque,
intendo telefonarti...-. Pausa, respiro. Ancora respiro. - Che...che
ne dici? Io..be' se sei arrabbiata è normale, hai ragione... porti
ancora capelli lunghi e rossi? Quanto mi sono mancati...-. Lacrime
nelle parole.- E la bimba, ti somiglia?-. Climax di commozione.
Ho quasi tre anni
di cose arretrate da dirgli; rimangono tutte impigliate nelle corde
vocali. - Io...sì, per me va....mh- mhhm..va bene, se vieni. Mi sa
che Viola assomiglia più a te, sai-
- Allora...ecco,
se non avete niente da fare magari passo più tardi...- e poi con
una studiata palese nonchalance aggiunge – non so, se hai un
compagno adesso e vuoi prima parlargliene...-.
Lo interrompo con
una risata mista a un singhiozzo. - Idiota.....lo sai che
t'aspetto...-.
lunedì 22 ottobre 2012
LA MATITA
Ore diciannove e trenta sotto la
pensilina della linea 23C. Otto gradi centigradi circa. Sono stanca.
Stamani alle nove, quando sono entrata a lavoro, il sole era diluito
in un cielo bianco sporco; ora il mondo è livido. Solo le scintille
dai fari che sfrecciano e si riflettono nell'asfalto umido. L'autobus
passerà tra nove minuti, un'attesa che mi fa dolere le rotule. Sono
stanca. Lo so che l'ho già detto, ma sento nei muscoli e nelle ossa
tutto il freddo e la stanchezza di questa terra. Devo trovare
un'occupazione per il cervello- se penso al bus, il bus non arriverà
mai, una sorta di maleficio: guardo le macchine passare, le
biciclette, i motorini. Frugo in borsa, raccolgo in una mano
fazzoletti appallottolati e scontrini raggrinziti di caffè e
detersivi, li getto nel cestino. Continuo a frugare: agenda ( niente
di nuovo da appuntare), una molletta, caramelle balsamiche. Mi ficco
in bocca una caramella. Ancora cinque minuti. Mi arrendo, fisso il
vuoto. Respiro dentro la sciarpa di lana. Struscio le cosce fasciate
nei jeans l'una contro l'altra.
Passa il 19B. Passa il 7. I minuti si
dilatano, mi deformano i tendini. La carcassa arancio Ansaldobreda
gira l'angolo e si avvicina. Finalmente. Mi siedo incrocio le braccia
ficco le mani sotto le ascelle. Mi accartoccio su me stessa. Tre
ragazzetti in fondo al bus ( dilatatori e bilancieri alle orecchie,
rapa e cresta) sghignazzano e si danno di gomito. Mi guardano. Io
butto gli occhi fuori dal finestrino, incapace di affrontare la loro
espressione beffarda. Brutta, mi sento. Perché mi fissano? Perché?
E poi fuori è così buio. Anche le mie mani stanno diventando buie:
ho i geloni e spaccature sulle nocche e le unghie violacee. Mi sento
violentata. Vorrei arrivare a casa – per favore autista più presto
più presto oh Dio ho bisogno di casa.
Sono sull'orlo delle lacrime.
Davanti a me si siede una bambina con
la nonna, appena salite alla fermata di Via D'Azeglio. La bimba ha
degli stivaletti in gomma a fiori e un anellino con una coccinella.
Mi guarda e mi sorride, e lo fa in modo talmente bello e buffo –ha
una deliziosa finestrella, le mancano i denti davanti- che le
restituisco un timido sorriso e le faccio ciaociao con la mano
screpolata. La piccola ride gorgogliando e io mi sporgo per esserle
più vicina e le chiedo come ti chiami?
Lei si tormenta una ciocca di capelli
per qualche secondo poi risponde Martina, e io le dico mi piace molto
il tuo anello, Martina. Lei allora tira fuori dallo zainetto il suo
quaderno e mi fa vedere i suoi disegni e anche il suo astuccio che
esplode di pennarelli e matite. Il mio colore preferito è il fucsia,
mi dice, e il tuo colore preferito qual'è?
Non ci avevo mai pensato, però
rispondo azzurro. Prende su una matita celeste cielo e chiede azzurro
così? Sì proprio, le dico. Lei allora me la allunga, te la regalo.
Ma no, ti può servire, faccio io tra il commosso e l'imbarazzato. Ma
lei ripete te la regalo,e le sue pupille sono fisse sulle mie e
quindi tendo la mano e prendo la matita.
La nonna chiama la bambina, devono
scendere. Saluta la signora, Martina. Lei allora mi fa ciao con la
mano e io mi godo gli ultimi istanti di quel sorriso sdentato.
Il bus riparte; fisso il sedile vuoto
sbattendo gli occhi. Un'apparizione? La fata delle corse urbane?
Persino i bulletti con le Nike argentate e la risata sguaiata non
sembrano più tanto minacciosi. Hanno smesso di spogliarmi con gli
occhi. Oppure sono io che ho tirato la tenda. Fatto sta che adesso mi
ritrovo ad avere un colore preferito e la relativa matita. Me la
avvicino alle narici: sa di legno e pastello e succo di frutta e
pongo.
Di soprassalto mi accorgo che ci stiamo
accostando alla mia fermata; l'aria pungente di fuori mi morde subito
le dita e le guance. Mi infilo le mani in tasca stringendo il regalo
nel pugno destro e lisciandolo con il pollice. Mi sembra ancora di
avere degli spilli conficcati nelle cosce e le scarpe mi stringono
l'alluce valgo e ho un bisogno matto di lavarmi i denti. Ma non ho
più così freddo.
domenica 21 ottobre 2012
AMAMI
" Amami, perché, senza te, niente posso, niente sono.
Aime-moi, car, sans toi, rien ne puis, rien ne suis"
Paul Verlaine
Aime-moi, car, sans toi, rien ne puis, rien ne suis"
Paul Verlaine
domenica 14 ottobre 2012
HO FAME DELLA TUA BOCCA
Ho fame della tua bocca, della tua voce, del tuoi capelli
E vado per le strade senza nutrirmi, silenzioso,
Non mi sostiene il pane, l'alba mi sconvolge,
Cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.
E vado per le strade senza nutrirmi, silenzioso,
Non mi sostiene il pane, l'alba mi sconvolge,
Cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.
Sono affamato del tuo riso che scorre,
Delle tue mani color di furioso granaio,
Ho fame della pallida pietra delle tue unghie,
Voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.
Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza,
Il naso sovrano dell'aitante volto,
Voglio mangiare l'ombra fugace delle tue ciglia
E affamato vado e vengo annusando il crepuscolo,
Cercandoti, cercando il tuo cuore caldo
Come un puma nella solitudine di Quitratúe
Pablo Neruda
Delle tue mani color di furioso granaio,
Ho fame della pallida pietra delle tue unghie,
Voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.
Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza,
Il naso sovrano dell'aitante volto,
Voglio mangiare l'ombra fugace delle tue ciglia
E affamato vado e vengo annusando il crepuscolo,
Cercandoti, cercando il tuo cuore caldo
Come un puma nella solitudine di Quitratúe
Pablo Neruda
mercoledì 10 ottobre 2012
ANOTHER BRICK IN THE WALL
Manuel doveva passare a
prendere Davide alle dieci. Sono le dieci e ventitré, Davide è
appoggiato ad un cancello a fumare e imprecare tra i denti quando la
Yaris bianca di Manuel inchioda davanti a lui. Davide sale sbattendo
la portiera. - Sei in ritardo, cazzone-.
Manuel sbuffa mettendo in
moto; l'auto si avvia ansimando, a scatti.
- Devi dare un po' di
gas quando lasci la frizione....Come ti aspetti che riparta la
macchina sennò?-.
- Credevo che ci fosse
un'entità superiore che la facesse andare anche senza
acceleratore...-.
- Non c'è nessuna
entità superiore che ti aiuterà a partire....nessun essere
lassù...-. Davide aspira una boccata di fumo strizzando gli occhi.
- Ognuno è Dio di sé stesso-.
Manuel rimane in silenzio.
Aspetta la prossima mossa. Davide si china e attacca l'i-Pod alla
presa USB dell'autoradio. - Lettera?-.
- Emme-.
Play: attacca Miles Davis.
Manuel guida in silenzio,
Davide finisce la sigaretta e prende una chiamata. Riattacca con un
“fanculo”. Sta lavorando ad un progetto con dei colleghi di
università che lo fanno bestemmiare sonoramente. Detesta la passiva
incompetenza e ignoranza dei parvenu che proseguono la carriera
accademica per inerzia.
- Be', ma se ci devi
aver a che fare solo per 'sto lavoro, sopportali e basta. Che sarà
mai? Non puoi sempre pretendere che tutti rientrino nei tuoi
standard che, francamente, sono anche abbastanza selettivi.... devi
scendere a patti con il resto del mondo, se vuoi vivere in società-.
Manuel è pragmatico e diplomaticamente tollerante; parcheggia nella
solita piazzola isolata sul fianco della collina.
- Sai cosa dice Tyler
Durden in Fight Club?-.
- Gesù....-.
Davide stappa una
Tennent's. - “ Metterti le piume nel culo non fa di te una
gallina”-.
- La devi piantare con
queste continue citazioni...-.
-Sai cosa significa,
vero?-.
- …..-.
Motley Crue.
- Non puoi fingere
di essere come gli altri se sei diverso, anche se vivi in mezzo a
loro. O meglio, non puoi diventare come gli altri solo perchè ci
entri in contatto-.
- Sì, occhei, ma non
puoi basarti sulle citazioni, portami esempi concreti..-.
- Il cinema è arte.
L'arte rispecchia la vita. Diresti mai che la vita non è
concreta?-. Davide beve una lunga schiumosa sorsata di birra e si
pulisce la bocca alla t-shirt. - E poi viviamo nell'era di The Sims,
della Wii, di Mastrolindo. E' la sagra del fittizio, dell'ologramma,
del manichino-.Tacciono tutti e due per qualche minuto. Risucchio di bocca che si stacca dal collo della bottiglia e liquido che viene deglutito. Manuel sa che Davide ha ragione ma non vuole credere che sia proprio tutto da buttare. Da bambino se l'era goduta un sacco a giocare con le Micro Machines e a correre fino a che la salivazione sballava e doveva sputare per terra, e pane e salame era così buono – e lo è tuttora-, e poi alle medie i pomeriggi passati a scoprire il punk e il metal... Non c'è nulla che si salvi di tutto questo?
Mudhoney.
- Hai il potere di
farmi salire l'angoscia, tu, lo sai?-. Davide tira fuori il tabacco
e si rolla un drum.
- Ormai hai varcato la
soglia della beata ignoranza, ne sei fuori, e non certo per causa
mia... E non puoi tornare indietro, pillola rossa o pillola blu,
come in Matrix-.- Tu e le tue citazioni del cazzo...-.
Quando toccano certi
argomenti, è difficile poi che non ne escano malconci: è una china
ripida da risalire, e allora si succhia fumo dal filtro come fosse
latte materno dalla mammella. Uno ha bisogno di sicurezze, perdio, o
quantomeno di palliativi.
- ...e quindi, secondo
te, qual'è la soluzione?-. Davide getta il mozzicone a terra, e
dopo mezz'ora di serrato botta e risposta anche lui si sente come
quel mozzicone, spento consumato calpestato. Poco più di cenere e
saliva.
-Non c'è soluzione.
Non possiamo trovarla, la soluzione, tu ed io con la nostra birra e
la nostra musica. Ma la consapevolezza è già una gran cosa-.
Manuel scende dalla macchina e scompare tra i cespugli per urinare.
Sul posto del passeggero aleggia una scia di profumo alla mirra. Dal
buio frusciante delle foglie urla – EHY, CAMBIA LETTERA! METTI LA
PI, COSI' CI SPARIAMO PRODIGY E PINK FLOYD!-.
Oh, sì: Breathe ,
breathe in the air ,don't be afraid to care ….
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domenica 7 ottobre 2012
UOMINI E NO
“Giulia,
ti lascio perchè ormai la chitarra mi da più orgasmi del
tuo corpo. Perchè non ho più voglia di baciarti i capelli. Perchè ti vesti come
una liceale arrapata. Ti lascio con un biglietto perchè così ti incazzerai
ancora di più con me, e magari sarà tutto più facile.
Senza rancore.”
Senza rancore, non credo. Ma ci saranno le sue amiche a
consolarla e a darle man forte nel sputarmi veleno addosso. Non vedono l'ora di
andarci giù pesante con lo stronzo di turno. Idiote: si mettono le ciglia finte
per andare a ballare, abbinano la borsa con le scarpe e tutto quello che
rimediano è una sveltina in macchina.
Ho lasciato il biglietto nella cassetta della posta di
Giulia, poi mi sono allontanato pigiando forte sull'acceleratore. Non credo che
tornerò subito a casa. Continuerò a guidare, sgusciando per le strade come la
biglia argentata di un flipper ( ma ce ne sono ancora nei bar o esistono solo
nel pacchetto giochi di Windows?). Tengo i finestrini abbassati ed entrano
fiotti d'aria fresca che salgono su per i tubi delle narici e penetrano
direttamente nella scatola cranica.
L'ho lasciata con un biglietto perchè ultimamente quando le
sfioravo la pelle (aranciobruna grazie a sedute settimanali al solarium) era
come accarezzare una Barbie; anzi, mi ricordo che intorno ai dieci-undici anni
guardando quelle curve plastificate quasi mi eccitavo. Il suo corpo invece non
rispondeva più allo stimolo delle mie dita. Oppure erano loro ad essere
diventate sorde ai suoi richiami. Fatto sta che godo solo quando imbraccio una
chitarra e mi arrampico su e giù per quelle sei corde, e lì le mie dita saltano
pizzicano scivolano e vibrano assieme alle corde della mia Telecaster. Quando
trovo il riff giusto, è l'estasi.
Di recente succedeva
che io me ne stavo a suonare con lo stesso trasporto di Santa Teresa d'
Avila, mezzo fumato, a inseguire melodie visionarie. Lei si tingeva le unghie
guardando Barbara D'Urso. E rideva di me; rideva se mi commuovevo ascoltando
Tenco o De Andrè, perchè mi intestardivo a provare e riprovare un passaggio
finché non mi usciva perfetto. Rideva scoprendo
i denti sbiancati e strizzando gli occhi da cerbiatta. Ed era una cosa che mi
faceva davvero incazzare. E qualche settimana fa le ho detto che, tra i due, a
me la cretina sembrava lei, che ogni sera si impiastra le cosce di crema
anticellulite e che quando ha fame si ingozza di barrette dietetiche.
Allora lei ha cominciato a lacrimare, le spalle scosse dai
singhiozzi, le tette strizzate nella t-shirt che sballonzolavano su e giù, il
labbro tremulo. Di tanto in tanto tirava su col naso grugnendo. Ed era talmente
ridicola che, stavolta, le sono scoppiato a ridere in faccia io. E la cosa
ovviamente l'ha mandata in bestia.
Ho lasciato lei e la mia famiglia. Me ne sono andato di casa
circa un mese fa. I miei sono gente semplice con appena la terza media. A mia
mamma voglio bene; come si fa a non voler bene ad una signora che veste sempre
a fiori e odora di basilico? Quando le ho detto che suonavo per locali con un
gruppo, mi ha raccontato entusiasta di come, da ragazza, fosse invaghita di Mal
e del suo ammaliante intercalare anglofono. So
sexy. Poi si è messa a cantare Parlami
d’amore Mariù e io l’ho afferrata e le ho fatto fare il casqué.
Di mio padre ho sempre diffidato un po’: viso paonazzo e
barba ispida, fa il muratore e lavora sodo. Da bambino dovevo abbracciarlo
quando rientrava a casa; mamma ci diceva che questo lo faceva contento, quindi
bisognava corrergli incontro quando varcava l'uscio. Però lui, pover'uomo,
puzzava di sudore sigaro e sudiciume e i miei abbracci non duravano più di
qualche secondo. C'era un che di selvatico nel babbo, anche se si è sempre
dimostrato un bonaccione. Fino a quando non ha scoperto che mio fratello ad un
bel paio di tette preferisce pettorali scolpiti e tartaruga.
Ha cominciato a prenderlo a schiaffi urlando “Frocio! Frocio
schifoso! A me doveva capitare....”. Il naso di Giacomo prese a sanguinare, la
mano tozza del babbo continuava a menare sonori ceffoni – un cinghiale che si
scaglia contro un capretto. Giacomo era troppo rintronato dalle percosse per
fare resistenza, allora mi sono lanciato io su quell'uomo schiumante di rabbia,
cercando di farlo smettere e di ammansirlo. Non facile. Anche perché la
circonferenza di un suo bicipite corrisponde grossomodo a quella di una mia
coscia. Alla fine riuscii a mettermi fra i due, facendo da scudo a mio
fratello. Sentivo le ascelle sguazzare nel sudore. E non volevo credere che la
bestia che ruggiva “Checca di merda!” davanti a noi fosse nostro padre.
Avevo dei soldi da parte, e avevo un lavoro: cercai un
appartamento e lasciai casa mia portandomi dietro Giacomo e il suo viso pesto.
La prima sera nella nostra nuova sistemazione sedevamo
entrambi in silenzio su un divano che ci era ancora sconosciuto e, in qualche
modo, ostile. Giacomo sospirò e si tastò il labbro su cui aveva un taglio
profondo violaprugna.
-
Ma come ha fatto?-, chiesi indicando con la
testa la ferita.
- Preso in pieno con la fede...Gesù se ha fatto male!-. Si
bagnò la spaccatura con la lingua e tornò a tacere. Mi avvicinai e lo
abbracciai – Frocetto del cazzo...-. Gli scompigliai i capelli tra i suoi risolini
striduli. Si liberò dalla mia presa, ridendo, e si pettinò con le dita. – Oh,
Dio, ci vorrebbe una megavaschetta di gelato...-.
-
Sei proprio una checca...ma quale gelato,
birra,perdio, BIRRA! E’ la birra che bevono i veri uomini!-. Tuttavia mi infilai
la giacca di jeans e scesi dai pakistani sotto casa per comprare una confezione
di gelato da un kilo.
-
Ma non eri andato a comprare le sigarette?-.
Sotto i lividi ancora gonfi, a Giacomo brillavano gli occhi di nuovo.
-
Vai a prendere due tazze: ci sfondiamo di
nocciola e stracciatella. E guardiamo un film. Un film da uomini, però; Bridget Jones te lo vedi con le tue
amiche....-.
Scelsi Per un pugno di dollari. Polverizzammo il
chilo di gelato. Ricordo che, mentre io avevo gli occhi chiusi per assaporare
la colonna sonora di Morricone. Giacomo mi bisbigliò – Ti voglio
bene....grazie-. Mi girai di scatto verso di lui, ma si era già ficcato in
bocca una cucchiaiata di nocciola e fissava lo schermo.
Forse non avrei dovuto lasciarla con un biglietto, forse non
è corretto, non è giusto, rifletto.
Metto la freccia a sinistra, scalo la marcia e giro.
Ma d’altronde, se il mondo fosse giusto il vecchio Arsenio
Lupin non si lascerebbe sedurre e abbandonare da quelle maggiorate di Margot e
Fujiko ogni volta; le spedirebbe a fare le mondine in Cina e cari saluti. Ma
tant’è.
mercoledì 3 ottobre 2012
SE IL PRETE VA IN VACANZA
-Sveglia...-. Alito al caffè e
delicate carezze sui riccioli.
Bianca apre gli occhi e si gira verso
la mamma. Si lascia sollevare e strappare dall'involucro caldo delle
coperte; sbadiglia spalancando la bocca senza ritegno e scoprendo due
finestrelle da denti da latte.
Oggi è domenica, ed è un giorno
strano, mamma e babbo non vanno a lavoro e lei non deve andare a
scuola. Anche i cartoni alla TV non sono gli stessi delle altre
mattine. A Bianca la domenica non dispiace: può fare colazione con
calma e guardare una puntata di Sailor Moon per intero mentre aspetta
che le palline di cioccolato affoghino nel latte oppure mentre tuffa
i biscotti e li ripesca solo quando sono spappolati.
Poi la mamma le mette un vestito, o una
gonna con la camicetta, e le calze ricamate. Stamani Bianca vuole
mettersi il suo gommino con la fragola; la mamma allora le raccoglie
i capelli in una coda, uno zampillo di boccoli. Quando loro due e il
papà sono pronti, salgono in macchina vanno in chiesa, perchè –
così dice sempre la mamma- la domenica si va alla messa.
In chiesa le luci sono spente, ci sono
solo tozze candele bianche accese, e poi c'è un odore stranissimo,
un odore che non si sente in nessun altro luogo e che un po'
stordisce. Bianca siede tra mamma e babbo. Non arriva a toccare il
pavimento con i piedi, perciò durante la funzione sgambetta
guardando orgogliosa le sue ballerine di vernice lucida. Torce le
gambe in modo da far convergere le punte dei piedi; ora Destra può
parlare con Sinistra. Chiacchierano amabilmente – Bianca borbotta
il dialogo con due voci diverse- e alla fine Destra tocca Sinistra e
si scambiano un bacetto timido mentre il prete comincia a recitare il
Padre Nostro.
Poi alza gli occhi e guarda gli angeli
e le nuvole dipinte sulle pareti, e pensa che siano davvero belli, e
anche i gigli bianchi sull'altare sono belli, e tutte le signore che
Bianca riesce a vedere sono vestite bene e truccate. Anche Bianca
quando sarà grande si truccherà e avrà i capelli lunghi e prenderà
il caffè come la sua mamma.
Dopo la messa vanno sempre a pranzo
dalla nonna; nonna Adele le prepara le patatine fritte e le fa
trovare le rotelle di liquirizia e le permette di giocare con tutti i
ninnoli che tiene in salotto.
Però poi un giorno Bianca vede la
mamma stesa sul divano; pensa che stia dormendo, ma quando le si
avvicina vede che sta piangendo. Che strano, la mamma non lo fa mai,
non l'ha mai fatto. Cosa vuol dire quando la mamma piange?
Il papà prende Bianca sulle ginocchia
e le dice che la nonna, quella nonna che le compra la liquirizia,
stava tanto male e quindi è andata all'ospedale, ma stava troppo
male e il suo cuore era vecchio e stanco.... Il giorno dopo, anche se
non è domenica, vanno in chiesa: sono tutti e tre vestiti di nero
perché, spiega il babbo, è così che ci si veste quando qualcuno se
ne va.
Bianca non capisce: tutti piangono e
abbracciano lei e la mamma, figure nere con facce tristi e tanti
fiori e in chiesa quell'odore è ancora più forte del solito. La
bambina è confusa, è tutto così desolato e malinconico e disperato
che comincia a piangere anche lei, singhiozzi e muco. Ha paura.
Piange talmente tanto che le entra mal di testa e non ha più fiato.
Persone, sconosciuti stringono la mano a sua madre e danno un
buffetto sulla guancia alla bambina. Alcuni non parlano e portano gli
occhiali da sole; altri dicono “mi dispiace”, “fatti forza” e
un'altra parola che Bianca non conosce e che finisce in “- anze”.
Fiorenza, la loro vicina di pianerottolo, ha la faccia biancofarina e
il naso rosso e il singhiozzo – Oh...oh...pove-ra donnna...hic! App-pena sessssantanni...hic!-. A Bianca scappa uno sbuffo di
risata lacrimosa. Quando arrivano a casa – casa, finalmente casa!- mamma le
prepara latte caldo e miele, la abbraccia e rimane abbracciata con
lei sul divano a guardare la TV.
I giorni seguenti la mamma è ancora
triste e non va a lavoro e la domenica mattina Bianca si stupisce
perché anziché un abitino mamma le fa indossare una tuta per andare
al parco.
- E alla messa, non si va?-.
- No. oggi no-.
Però non vanno nemmeno la domenica
seguente, e neanche quella dopo ancora.
- Mamma, ma non ci andiamo più in
chiesa?-, chiede Bianca.
- No..-.
- Perché?-.
- Perché non c'è più la messa,
Don Luca è andato in vacanza-.
Bianca non risponde, è tutto così
diverso. Poi domanda, illuminata – Ma Don Luca quando torna,
dalle vacanze?-.
- Ancora, non lo so, pulcino, non lo
so proprio...forse, se là sta meglio, non torna più. Chissà-.
venerdì 28 settembre 2012
URLO
"Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla pazzia,
affamate, isteriche, nude
trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa
hipster testadangelo bramare l'antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte,
distrutte dalla pazzia,
affamate, isteriche, nude
trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa
hipster testadangelo bramare l'antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte,
che povertà e stracci e occhiaie fonde e strafatti
stavan lì a fumare nel sovrannaturale buio di case
con acqua fredda
librati su tetti di città
contemplando jazz"
stavan lì a fumare nel sovrannaturale buio di case
con acqua fredda
librati su tetti di città
contemplando jazz"
Allen Ginsberg, Urlo
giovedì 27 settembre 2012
DICHIARAZIONE DI DISAMORE
-Ma io non capisco...-.
- Buonanotte-.
- Ehi, ma vuoi troncare così?-
- Buonanotte-.
Eh, caro mio, non sono in molti ad
avere il privilegio di riuscire a capire qualcosa. Non te ne
sei ancora accorto?
- Cioè, fino ad un mese fa andava
tutto bene, stavamo bene, poi ora....mi dici questo. Dove ho
sbagliato? Cosa è cambiato?-.
Ti ho conosciuto meglio, ti ho guardato
più attentamente e più da vicino. E quello che ho visto non mi è
piaciuto granché.
- Insomma, non sarà per quel
messaggio che ti ho scritto il sabato sera...ti ho chiesto scusa,
non pensavo che potesse darti così fastidio. Dimmi, è per
quello?-
Gesù, che ottusità.
Di fronte alle tue domande incalzanti
io continuo a stare in silenzio, seduta, e ti guardo mentre ti
trasformi nel mio zerbino. Un cucciolo spaurito che ha bisogno della
sua mamma. Che però lo ripudia.
Sospiro. Non so esattamente a che punto
della mia vita sono diventata così intollerante a questa passività
remissiva, a chi il giogo dell'amore se lo mette al collo
spontaneamente.
Non posso, per umana carità, dirti la
verità; rispondo appigliandomi a pretesti superficiali, che però
riesco ad argomentare con convinzione di fronte alle tue proteste.
- Sì, ma allora che cosa ti aspetti
in un rapporto? Cosa?-
Non questo, non questo canto strozzato;
è tutto troppo tiepido. Ti devo rispondere che quando ti
guardo negli occhi non sento niente – niente. Che vorrei
urlare che le tue mani sudaticce, il tuo modo così prolisso di
raccontare aneddoti ( perdendoti in mille lungaggini), il tuo goffo e
ingenuo senso dell'umorismo ( quello da professore un po'
sempliciotto, e gli studenti ridono alle sue tristi battute per
cortesia o ruffianeria), il tuo ventre un po' flaccido, non li voglio
più santo dio, che se li prenda qualcun'altra, non li voglio. Non ti
voglio. E' questo che dovrei risponderti?
Ma tu non ti arrendi, credi di poter
identificare il granello che inceppa il meccanismo e poterlo
togliere, cosicché l'orologio possa tornare a funzionare. Io invece
continuo a boicottarlo, mentre non guardi stacco le lancette e
manometto gli ingranaggi.
- Mah, io credo che, se ci si vuole
bene, queste cose si possono sistemare, si tratta di venirsi
incontro...-.
Io non voglio sistemare un bel niente.
Voglio buttare via questa roba stracciata e sgualcita che mi da il
prurito. Santo cielo, tu per me dovresti rappresentare la bellezza,
la quintessenza del sublime, invece quando ti avvicini a me sento il
tuo respiro pesante e vorrei tanto scansare il tuo abbraccio. E poi
il tuo tentativo di farti crescere le basette per essere più
interessante è semplicemente patetico.
Pa-te-ti-co, capito?
- Ma quindi tu non sei più
innamorata di me?
Innamorata? Non lo sono mai stata, di
te. Te ne stupisci? Eppure era evidente; non sono mai stata, con te,
talmente trasportata dalla potenza del sentimento da genuflettermi ed
offrirti il mio misero essere, solo per te.
La lucidità con cui programmavo i
nostri incontri e ti mettevo in lista tra le mie priorità e i miei
impegni come poteva farti pensare che fosse amore?
Le tue argomentazioni giustificazioni
chiarimenti adesso diventano una lagna indistinta, insopportabile per
le mie orecchie. Rovisto nella borsa, tiro fuori le chiavi e ne
infilo una con decisione nella toppa del portone d'ingresso,
voltandogli la schiena. Balbettio confuso alle mie spalle.
- Io adesso devo davvero andare.
Sono stanca..-
- Ma dobbiamo finire il discorso,
non abbiamo ancora raggiunto un accordo...-- Buonanotte-.
- Ehi, ma vuoi troncare così?-
- Buonanotte-.
E “buonanotte” è l'unica cosa che
continuo a ripetere in risposta alle sue deboli proteste. Dopo che il
portone si chiude, escludendolo finalmente dal mio campo visivo, mi
sento immensamente sollevata- e leggera.
mercoledì 26 settembre 2012
LA LETTERATURA E' UNA RAGNATELA TESSUTA DA UOMINI
"La letteratura d'immaginazione non è un sasso che casca per terra, come succede a volte con la scienza; è una ragnatela, legata forse da un nulla, ma comunque legata alla vita, per i quattro angoli. A volte questo legame è quasi impercettibile; le opere di Shakespeare, per esempio, sembrano sospese in completa autonomia. Ma quando questa ragnatela viene distorta, agganciata a un angolo, strappata nel centro scopriamo che non è stata intessuta da una creatura incorporea, bensì che essa è il lavoro di un essere umano, capace di sofferenza, e che si trova legata a cose grossolanamente materiali, come la salute, il denaro, la casa in cui si abita."
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé
lunedì 24 settembre 2012
SARA' L'ETA'
Angela è rinchiusa nel ripostiglio.
Cioè, non è veramente in un
ripostiglio, ma è come se lo fosse. E' ermetica e lontana. Si lascia
appassire sul letto; non apre l'ombrello , cammina sotto la pioggia.
La pioggia non le dispiace.
Però quando entra in casa e sua madre
la vede zuppa e grondante si infuria, perché le verrà certo mal di
gola e poi perché ha lasciato dietro di sé pedate nere sul parquet
appena lucidato.
-Sarà l’età-, dice il padre.
Angela ha sedici anni ed è nel fondo di un pozzo. La madre non la
può sopportare in questo stato catatonico; la afferra per i polsi e
la scuote e urla – PARLA CHE C’E’ CHE HAI PARLA!-. Angela si
lascia scuotere e fissa la madre negli occhi: vede un misto di
frustrazione e disperazione, paura e amore. Uno sguardo che la
supplica di tornare ad essere felice.
Angela è cambiata dalla sera di quella
festa di compleanno: un intero locale con barman e dj a disposizione.
C’era la musica e c’era tanta gente che ballava rideva e beveva.
Anche Angela ballava rideva e beveva. E poi c’era lui. Lui che le
ha detto “andiamo fuori, così parliamo meglio”. Hanno
passeggiato lì intorno mentre lui si fumava una sigaretta e Angela
si perdeva sempre di più nelle sue fossette. Poi un momento di
silenzio e l’incontro di sguardi e di labbra.
E poi le mani del ragazzo sono scese
dalla nuca di lei ai suoi seni ai suoi fianchi al suo sedere. Fino a
che non si sono insinuate sotto il vestito, nei suoi slip. Lei però
non voleva, ma lui l'ha spinta contro il muro, le braccia costrette
dietro la schiena, impotenti. Angela non voleva, non voleva
assolutamente e ogni volta che lui entrava e usciva da lei era una
pugnalata nella carne viva e dal dolore ha cominciato a piangere, i
muscoli della vagina contratti nel doloroso inutile tentativo di
opporre resistenza. Il suo inguine bruciava e anche la gola le
bruciava, e lui affondava le unghie nei suoi glutei o le strizzava
avidamente i seni. Angela sentiva il rantolo di lui e piangeva per lo
schifo, basta in nome del cielo basta!, e lui le premeva la mano
sulla bocca e sudava e gemeva.
E lei
non ha
potuto
far
nulla.
Dopo.
Dopo, con tutta la dignità che la
situazione consentiva, Angela si è tirata su le mutande, si è tolta
le décolleté ed è corsa in bagno. Il sangue le colava giù per le
cosce e la faccia era impiastrata di muco, lacrime e mascara. Si
ripulì alla bell'e meglio e chiamò a casa per farsi venire a
prendere. Suo padre pensava che fosse ubriaca; un mese di punizione.
Appena a casa, Angela si chiuse in
bagno e riempì la vasca. Si guardò a lungo allo specchio senza
riconoscersi; cercò su di sé le tracce di quello che era appena
successo. Aveva due succhiotti sul collo, del sangue secco tra le
gambe, graffi sul sedere. Vomitò; non si era mai sentita tanto
sudicia, puzzava di alcol, di succhi gastrici, di pesce. Rimase
distesa nell'acqua per un'ora, fino a che le dita delle mani e dei
piedi diventarono incartapecorite. Ha continuato a vomitare e lavarsi
a fondo anche nei giorni seguenti; non aveva più voglia di mangiare
né di avere un corpo. A ben vedere, era stato lui a tradirla.
E quindi langue nel suo bozzolo,
cercando una purezza eterea che per ora le sembra inarrivabile.
-Non vuole il pollo né il tonno,
non vuole uscire, sta a ore nel bagno...- , esplode la madre.
-Sarà l'età-, commenta il padre
studiando gli importi delle bollette di questo mese.
Angela anche oggi ha preso il bus 15C
per tornare da scuola, è scesa davanti alle Poste e sta rincasando a
piedi. Si sente particolarmente leggera e debole e ha i sensi
lievemente offuscati. Realizza di fare fatica a respirare, una
vampata di calore la infiamma, la pelle brucia di nuovo, e lei di
nuovo sente il peso del corpo di lui che la costringe al muro. Angela
suda e sente le mani del ragazzo dappertutto; le tremano le gambe e i
polsi, sente il sangue pompare veloce e le impronte di lui sono
marchi a fuoco ancora roventi, e lei è solo un buco in cui lui si
diverte ad infilarsi....
- Oddio, mi gira la tes...-.
Sipario.
venerdì 21 settembre 2012
L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE
"Non si può mai sapere che cosa si deve volere perchè si vive una volta
soltanto e non si può nè confrontarla con le proprie vite precedenti, nè
correggerla nelle vite future.Non esiste alcun modo di stabilire quale
decisione sia la migliore, perchè non esiste alcun termine di paragone.
L'uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni.
Come un attore che entra in scena senza aver mai provato."
"L'amore è il desiderio della metà perduta di noi stessi."
"Quando ero piccolo e sfogliavo il Vecchio Testamento raccontato ai bambini e illustrato con le incisioni di Gustave Doré, vi vedevo il Signore Iddio su una nuvola. Era un vecchio, con gli occhi, il naso e una lunga barba,e io mi dicevo che se aveva la bocca doveva anche mangiare. E se mangiava, doveva anche avere gli intestini. Quell'idea mi faceva venire subito i brividi perché io, pur appartenendo a una famiglia più o meno atea, sentivo che l'idea degli intestini di Dio era una bestemmia."
Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere
"L'amore è il desiderio della metà perduta di noi stessi."
"Quando ero piccolo e sfogliavo il Vecchio Testamento raccontato ai bambini e illustrato con le incisioni di Gustave Doré, vi vedevo il Signore Iddio su una nuvola. Era un vecchio, con gli occhi, il naso e una lunga barba,e io mi dicevo che se aveva la bocca doveva anche mangiare. E se mangiava, doveva anche avere gli intestini. Quell'idea mi faceva venire subito i brividi perché io, pur appartenendo a una famiglia più o meno atea, sentivo che l'idea degli intestini di Dio era una bestemmia."
Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere
giovedì 20 settembre 2012
IL CASO E' CHIUSO
Le 11,36 di un martedì di ottobre.
Si era sentita una raffica di spari
provenienti da una palazzina in via Togliatti; alla polizia erano
arrivate una dozzina di chiamate, voci tra l’allarmato e
l’eccitato. Fu subito mandato sul posto il Commissario Salvi.
Quello che lui e i suoi uomini
trovarono facendo irruzione nell'appartamento al secondo piano fu:
una casa perfettamente in ordine, nessun segno di effrazione a porte
né finestre e un cadavere dal petto martoriato da una generosa
scarica di proiettili. Il povero diavolo era sdraiato sul pavimento
supino, la braccia spalancate come Nostro Signore Gesù Cristo sulla
croce.
-Ahiahiahi.....- il commissario si
avvicinò al corpo ed esaminò il torace, una poltiglia di sangue
semirappreso, cotone misto poliestere e pezzi di interiora. - Devono
aver usato una pistola mitragliatrice, forse una Beretta 93R-.
-Commissario, abbiamo trovato i
documenti d'identità: Bruno Cozza, nato a Viterbo il 3/07/1962-.
-Sposato? Famiglia?-
-No, celibe-.
-Professione?-
-Impiegato presso le Poste-.
Luigi Salvi si lisciò le sopracciglia
e si grattò energicamente il naso.
-Commissario....la gente qua fuori
chiede se può essere utile per le indagini....se si deve tenere a
disposizione... Cosa gli dobbiamo rispondere?-
Già; il sangue attira sciacalli e
avvoltoi, gli stessi che non mancano di fermarsi a leggere ogni nuovo
necrologio e che abbassano il volume della TV per sentire il vicino
che litiga con la moglie.
-Ai giovani di' di andare a casa,
che si diano da fare per rimediare al calo delle nascite; ai vecchi
invece dici di smettere di andare contromano in bicicletta. Prima o
poi ne tiro sotto qualcuno....-
-Ma signore...-.
-Fusco, cosa vuoi che ti dicano? “Era una bravissima persona, ieri mi ha anche aiutato a pettinare il mio micetto...”, “una buon'anima, tutte le mattine innaffiava le sue piantine di basilico”. Non ho voglia di perdere tempo con le donnicciole!-
L’ispettore continuava a tentennare;
era un tipo zelante e preciso sul lavoro, ma apparteneva a quella
categoria di persone che non sa dire di no a nessuno. Salvi sbuffò e
si rivolse al viceispettore. - Paternò, per amor di Dio, vai tu...-
-Sì, signore-. Vincenzo Paternò,
un metro e novanta di freddezza palermitana. Giusto come un
limoncello a fine pasto.
-Di' un po', Fusco sei sposato? Fidanzato?-
-Fidanzato, signore-.
-Con la tua donna almeno ci sai stare sopra?-
Il brigadiere arrossì.
L'appartamento era piccolo, il mobilio
vecchio, la tappezzeria opprimente; la scala cromatica del salotto
andava dal giallo senape al verde salvia e un velo di marrone. Il
divano era di similpelle rigida e stinta, su uno scaffale erano
raccolte palle di neve, miniature di monumenti e chiese, souvenir
fatti con conchiglie e fil di ferro; Salvi attraversò il salotto a
grandi falcate e passò nella stanza adiacente. La cucina era ancora
più striminzita del salotto; il commissario si avvicinò al tavolo
coperto da una tovaglia incerata su cui era poggiata una ciotola
portafrutta in ceramica bianca. Salvi si chinò: la frutta era di
plastica.
Sul fornello stava la moka ancora
tiepida. Aprì gli sportelli della dispensa: tonno e carne in
scatola, barattoli di fagioli e di passata, pane in cassetta,
cetrioli sottaceto e, Gesù!, crauti e asparagi in lattina. In un
cassetto trovò le ricevute di bollette e affitto regolarmente
pagati, in frigo un paio di lattine di birra e delle sottilette.
Cominciava a deprimersi sul serio.
Dette una rapida occhiata anche a
camera da letto e bagno, ma non trovò nulla che non appartenesse ad
uno stile di vita mediocre e pressappochista. Copriletto sobrio,
vestiti ordinari e leggermente retrò ( pantaloni di velluto a coste,
giacche con toppe ai gomiti, pullover extralarge) in un armadio che
odorava forte di naftalina, l'armadietto dei medicinali ben fornito
di pastiglie contro la diarrea, collutorio e analgesici.
-Commissario....-. Fusco si era
materializzato sulla soglia del bagno tenendo nella mano
opportunamente guantata una rubrica. - Abbiamo rintracciato la
famiglia; una sorella che abita in provincia di Torino, sposata con
due figli. Non lo vede da Natale, si sentivano di tanto in tanto e
sa poco e nulla della vita privata del fratello.... Poi c'è la
mamma novantenne in un ricovero qua vicino. E' affetta da demenza
senile da quasi dieci anni-.
-Altri contatti? Colleghi, amici, amanti? Il numero di qualche mignotta?-
-Stanno interrogando i condomini...gli altri numeri in rubrica erano più che altro del dottore, l’elettricista, il dentista...cose così. Utilità-.
-Apparentemente un eremita asessuato, quindi. Impossibile che abbia dato noia a qualcuno, un tipo così. Che giocasse d'azzardo e si fosse inguaiato? Andate a fare qualche domanda nei bar in zona... -
-Sissignore-.
Si diressero entrambi verso il salotto,
dove Bruno Cozza e il suo ventre aperto stavano in balia di diverse
paia d'occhi. Salvi ignorò il cadavere e si avvicinò invece alla
libreria; si stupì nel trovare Schopenhauer, Nietsche, Kierkegaard,
Pavese, Sartre. E ancora: Camus, Rousseau, Levi, Ionesco.
Era sinceramente ammirato. Frugò nei
cassetti del mobile e trovò taccuini su cui erano meticolosamente
registrate tutte le spese di ogni mese da dodici anni a questa parte.
– “ Lenzuola in flanella; tachipirina; cena fuori con sig.
Rizzo...”- passò in rassegna una pagina di quegli elenchi
certosini. In un raccoglitore erano conservati ritagli di giornale:
articoli che trattavano di inflazione, potere d'acquisto, passaggio
da lira a euro, cambio euro-dollaro. Bruno Cozza, economo nichilista.
Salvi sfilò La luna e i falò e
lo sfogliò; passò in rassegna qualche altro volume. C'erano passi
sottolineati o segnalati con serpentine e frecce a margine. O con
punti esclamativi.
Personalità
più interessante di quanto potesse apparire dalle sue scelte in
fatto di design d'interni. Mise da parte libri e bloc-notes e si
diresse verso il cadavere. Lo guardò bene in viso: il mento e la
mascella erano incrostati di sangue, ma sulla bocca era disegnato un
lieve sorriso che sembrava, sì sembrava proprio di....sollievo.
E le braccia (lo notava solo adesso) erano spalancate come se avesse
voluto offrire il petto al suo cecchino. Bersaglio volontario.
Il
caso richiese ancora qualche giorno di raccolta di testimonianze e
ricerche nelle pieghe del quotidiano della vittima. Incrociando tutti
i dati, il blob informe di una possibile soluzione cominciò a
prendere forma nella mente del commissario. Salvi attese l'ultima
conferma alla sua tesi, poi convocò la sua squadra. - Caso Cozza-
esordì. - Nessun tentativo di furto o scasso, nessun conto da
regolare, un tipo che non ha molestato la figlia o la moglie di
nessuno, che sembra non avesse nemici né amici, quindi
apparentemente nessun movente. Regolare conto in banca, né congruo
né esiguo, affittuario e condomino tranquillo e puntuale nei
pagamenti, scapolo incallito. Perché lo dovresti ammazzare, uno
così?-.
-Per
pietà....-. Ridacchiare sommesso.
-Più
o meno era lì che
volevo arrivare, Iodice. Non c'è colpevole, e anche se ci fosse,
non lo troveremo mai. Il carnefice in realtà è un benefattore:
Bruno Cozza voleva
morire. Si faceva pietà da solo, proprio pietà; era talmente
impantanato nella mediocrità e nell'insoddisfazione che poteva
decidere se continuare a galleggiare come aveva fatto fino ad
allora, oppure se lasciarsi andare a fondo, perché alla fin fine
era meglio così-.
Si
sollevarono obiezioni a questa ipotesi, era semplicemente grottesca.
C'erano magari elementi che erano sfuggiti loro o piste che non
avevano considerato. Sicuramente si poteva arrivare ad un risultato
più logico, più accettabile....
-
Cozza voleva morire- ripeté il commissario con decisione, - Era un
uomo oberato dalla preoccupazioni economiche, viveva nelle
riflessioni filosofiche dei suoi libri che leggeva in un salotto che
era la quintessenza dello squallore, mangiava da solo cibi in
scatola.....e sorrideva mentre gli sparavano, capite? Sorrideva-.
Sostenne gli sguardi increduli dei suoi sottoposti.- Ma voi credete
pure quello che volete; per me, il caso è chiuso-.
martedì 18 settembre 2012
PASTA AL PESTO
Another love song
Per E.
Lui e Lei non sono mai destinati
a stare insieme. Non importa se si amano davvero; prendete “Casablanca”, ad
esempio. Il vero amore esiste solo nelle commedie romantiche con Meg Ryan.
Questo mi hanno insegnato 28 anni di vita su questo pianeta, questo e che non
bisogna mettere la moka in lavastoviglie. Specialmente se le siete affezionati.
E’ quasi ferragosto; per stasera
è in agenda una riunione chez moi per
organizzare un falò sulla spiaggia. Dalla parete, Kim Basinger mi lancia uno
sguardo languido; Dio, quant’è gnocca in 9
settimane e ½.... Mi sdraio sul divano canticchiando a mezza voce “You can
leave your hat on” e cado addormentata.
Mi risveglio nel panico, con un
pungente sapore metallico in bocca e la convinzione che sia tardissimo. Sguardo
al display del cellulare: 19,30. A che ora arrivano? “Alle otto”, mi rispondo.
E’ tardissimo.
Be’, io adoro fare le cose di
fretta; è come se lanciassi una sfida al tempo. E quando è lui a vincere, io
perdo il treno o prendo una multa per eccesso di velocità. Stasera finiamo in pareggio. Quando suonano alla porta i miei ricci sono
ancora umidi e mi sono passata il kajal solo sulla palpebra destra. Però
l’incenso arde silenziosamente in salotto, i posacenere sono svuotati e non
indosso più la t-shirt dei Metallica.
Non conosco tutti; ci sono un
paio di amici di amici chiamati per fare numero. Da brave carogne, tendiamo ad
evitare di includere le coppie. Che se ne stiano pure a pomiciare sul loro
divano, perdio.
Si stappino le birre, che la
seduta abbia inizio. Dapprima c’è la solita caciara di idee inconcludenti, con
la piattola di turno che deve trovare questioni e cavilli su cui continuerà a
insistere fino alla sera del falò, con quel gusto per il dettaglio nanoscopico
di ingegnere termonucleare. Mi accendo una sigaretta. Bado ad aspirare
profondamente, a trattenere il fumo in bocca e a soffiarlo fuori piano piano,
lentamente, formando rivoletti bianchi. Detesto le questioni pragmatiche ; le
minuzie organizzative mi annoiano.
Dopo un’ora si è deciso chi porta
la sangria, chi la legna, chi la chitarra e via discorrendo. La comitiva
comincia a dileguarsi, un tripudio di saluti, bacetto-bacetto sulla guancia e
scalpiccio di passi che si allontanano giù per la tromba delle scale. Rimane la
desolazione delle bottiglie ambrate abbandonate sul tavolo, pacchetti di Pall
Mall vuoti, un accendino verde scarico. Però lui indugia.
E’il solo a non essersene ancora
andato; sta guardando le varie locandine cinematografiche appese con interesse
( vero o simulato, difficile a dirsi). Mi sembra di ricordare che lui sia il
tipo che suona la chitarra.
-
Ti piace il cinema francese?-
-
Come?-. Mi prende talmente in contropiede che,
nonostante abbia sentito perfettamente quello che ha detto, non riesco a
cavarne fuori il senso.
-
Ti piace il cinema francese?
-
Ah....sisì, ma non lo conosco bene... non bene
come quello italiano o americano-.
-
Hai mai visto Jules e Jim?-
-
No-.
-
Guardalo. Lo adorerai-.
-
Ah be’...grazie...chi è il regista?-.
Mentre lui disquisisce su
Chabrol, appunto lo sguardo sul suo ciondolo di legno e sulle piccole
lentiggini che puntellano naso guance braccia e gambe. La voce di questo
estraneo (Gesù, com’è che si chiama??) riempie le stanze, si impone, diventa
solida e tangibile. Meccanicamente comincio a togliere le birre vuote dal
tavolo. Con movimenti lenti e senza smettere di guardarlo. Si avvicina
prontamente a me e afferra lesto le bottiglie rimanenti. Anche io torno a
muovermi a velocità normale- qualcuno deve aver tolto il fermo immagine.
Ormai sono le nove e mezzo
passate. Le ultime gocce di sole si sono asciugate.
-
Avevi programmi per stasera?-. Getta nel pattume
l’ultima lattina.
-
No, non sapevo quanto ci avremmo messo ad
organizzare....e tu?-.
Scuote la testa riccioluta, si
gratta la nuca. – Non proprio, forse uno spritz al bar e poi film. Roba così-.
Annuisco. Cosa dovrei fare o dire
ora da copione? Se ne vuole andare? E io voglio che se ne vada? Mi figuro la
scena: dopo averlo liquidato con una banalissima scusa x, richiudo la porta
alle sue spalle, mi giro e vago per le stanze vuote. Avrò la libertà di
stropicciarmi gli occhi impiastrandomi i polpastrelli di nero e sbavando il
trucco. Tuttavia avverto una desolata tristezza, come dopo che hai ingoiato
l’ultimo boccone di torta e raschi il piatto per raccogliere i rimasugli di
pasta frolla e crema. Oppure come quando, da bambini, una festa di compleanno
finisce e si rimane soli con i palloncini mezzi sgonfi, gli incarti e i nastri
dei regali dimenticati in un angolo, vassoi semivuoti di tramezzini e pizzette
sbocconcellate.
E allora sento la mia voce
articolare una domanda; sì, perché non mi va di piangere sulla nostalgia degli
avanzi. – Ti va di mangiare qualcosa?-.
- Volentieri. Andiamo fuori?
Pizza?-.
- Mhmm....-. Apro il frigo. Tre
lattine di Guinness e un barattolo di pesto.- Pasta al pesto? Ti va?-.
- Perfetto-.
Tra i vapori dell’acqua bollente
a l’odore di basilico esploriamo l’uno la vita dell’altro. Alessio, ecco come
si chiama. Rimasto con me per un piatto di pastasciutta. Non se n’è più andato.
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