venerdì 28 settembre 2012

URLO

"Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla pazzia,
affamate, isteriche, nude
trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa
hipster testadangelo bramare l'antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte,

che povertà e stracci e occhiaie fonde e strafatti
stavan lì a fumare nel sovrannaturale buio di case
con acqua fredda
librati su tetti di città
contemplando jazz"
Allen Ginsberg, Urlo

giovedì 27 settembre 2012

DICHIARAZIONE DI DISAMORE

-Ma io non capisco...-.
Eh, caro mio, non sono in molti ad avere il privilegio di riuscire a capire qualcosa. Non te ne sei ancora accorto?
- Cioè, fino ad un mese fa andava tutto bene, stavamo bene, poi ora....mi dici questo. Dove ho sbagliato? Cosa è cambiato?-.
Ti ho conosciuto meglio, ti ho guardato più attentamente e più da vicino. E quello che ho visto non mi è piaciuto granché.
- Insomma, non sarà per quel messaggio che ti ho scritto il sabato sera...ti ho chiesto scusa, non pensavo che potesse darti così fastidio. Dimmi, è per quello?-
Gesù, che ottusità.
Di fronte alle tue domande incalzanti io continuo a stare in silenzio, seduta, e ti guardo mentre ti trasformi nel mio zerbino. Un cucciolo spaurito che ha bisogno della sua mamma. Che però lo ripudia.
Sospiro. Non so esattamente a che punto della mia vita sono diventata così intollerante a questa passività remissiva, a chi il giogo dell'amore se lo mette al collo spontaneamente.
Non posso, per umana carità, dirti la verità; rispondo appigliandomi a pretesti superficiali, che però riesco ad argomentare con convinzione di fronte alle tue proteste.
- Sì, ma allora che cosa ti aspetti in un rapporto? Cosa?-
Non questo, non questo canto strozzato; è tutto troppo tiepido. Ti devo rispondere che quando ti guardo negli occhi non sento niente – niente. Che vorrei urlare che le tue mani sudaticce, il tuo modo così prolisso di raccontare aneddoti ( perdendoti in mille lungaggini), il tuo goffo e ingenuo senso dell'umorismo ( quello da professore un po' sempliciotto, e gli studenti ridono alle sue tristi battute per cortesia o ruffianeria), il tuo ventre un po' flaccido, non li voglio più santo dio, che se li prenda qualcun'altra, non li voglio. Non ti voglio. E' questo che dovrei risponderti?
Ma tu non ti arrendi, credi di poter identificare il granello che inceppa il meccanismo e poterlo togliere, cosicché l'orologio possa tornare a funzionare. Io invece continuo a boicottarlo, mentre non guardi stacco le lancette e manometto gli ingranaggi.
- Mah, io credo che, se ci si vuole bene, queste cose si possono sistemare, si tratta di venirsi incontro...-.
Io non voglio sistemare un bel niente. Voglio buttare via questa roba stracciata e sgualcita che mi da il prurito. Santo cielo, tu per me dovresti rappresentare la bellezza, la quintessenza del sublime, invece quando ti avvicini a me sento il tuo respiro pesante e vorrei tanto scansare il tuo abbraccio. E poi il tuo tentativo di farti crescere le basette per essere più interessante è semplicemente patetico.
Pa-te-ti-co, capito?
- Ma quindi tu non sei più innamorata di me?
Innamorata? Non lo sono mai stata, di te. Te ne stupisci? Eppure era evidente; non sono mai stata, con te, talmente trasportata dalla potenza del sentimento da genuflettermi ed offrirti il mio misero essere, solo per te.
La lucidità con cui programmavo i nostri incontri e ti mettevo in lista tra le mie priorità e i miei impegni come poteva farti pensare che fosse amore?
Le tue argomentazioni giustificazioni chiarimenti adesso diventano una lagna indistinta, insopportabile per le mie orecchie. Rovisto nella borsa, tiro fuori le chiavi e ne infilo una con decisione nella toppa del portone d'ingresso, voltandogli la schiena. Balbettio confuso alle mie spalle.
- Io adesso devo davvero andare. Sono stanca..-
- Ma dobbiamo finire il discorso, non abbiamo ancora raggiunto un accordo...-
- Buonanotte-.
- Ehi, ma vuoi troncare così?-
- Buonanotte-.
E “buonanotte” è l'unica cosa che continuo a ripetere in risposta alle sue deboli proteste. Dopo che il portone si chiude, escludendolo finalmente dal mio campo visivo, mi sento immensamente sollevata- e leggera.





















mercoledì 26 settembre 2012

LA LETTERATURA E' UNA RAGNATELA TESSUTA DA UOMINI

"La letteratura d'immaginazione non è un sasso che casca per terra, come succede a volte con la scienza; è una ragnatela, legata forse da un nulla, ma comunque legata alla vita, per i quattro angoli. A volte questo legame è quasi impercettibile; le opere di Shakespeare, per esempio, sembrano sospese in completa autonomia. Ma quando questa ragnatela viene distorta, agganciata a un angolo, strappata nel centro scopriamo che non è stata intessuta da una creatura incorporea, bensì che essa è il lavoro di un essere umano, capace di sofferenza, e che si trova legata a cose grossolanamente materiali, come la salute, il denaro, la casa in cui si abita."

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé

lunedì 24 settembre 2012

SARA' L'ETA'

Angela è rinchiusa nel ripostiglio.
Cioè, non è veramente in un ripostiglio, ma è come se lo fosse. E' ermetica e lontana. Si lascia appassire sul letto; non apre l'ombrello , cammina sotto la pioggia. La pioggia non le dispiace.
Però quando entra in casa e sua madre la vede zuppa e grondante si infuria, perché le verrà certo mal di gola e poi perché ha lasciato dietro di sé pedate nere sul parquet appena lucidato.
-Sarà l’età-, dice il padre. Angela ha sedici anni ed è nel fondo di un pozzo. La madre non la può sopportare in questo stato catatonico; la afferra per i polsi e la scuote e urla – PARLA CHE C’E’ CHE HAI PARLA!-. Angela si lascia scuotere e fissa la madre negli occhi: vede un misto di frustrazione e disperazione, paura e amore. Uno sguardo che la supplica di tornare ad essere felice.
Angela è cambiata dalla sera di quella festa di compleanno: un intero locale con barman e dj a disposizione. C’era la musica e c’era tanta gente che ballava rideva e beveva. Anche Angela ballava rideva e beveva. E poi c’era lui. Lui che le ha detto “andiamo fuori, così parliamo meglio”. Hanno passeggiato lì intorno mentre lui si fumava una sigaretta e Angela si perdeva sempre di più nelle sue fossette. Poi un momento di silenzio e l’incontro di sguardi e di labbra.
E poi le mani del ragazzo sono scese dalla nuca di lei ai suoi seni ai suoi fianchi al suo sedere. Fino a che non si sono insinuate sotto il vestito, nei suoi slip. Lei però non voleva, ma lui l'ha spinta contro il muro, le braccia costrette dietro la schiena, impotenti. Angela non voleva, non voleva assolutamente e ogni volta che lui entrava e usciva da lei era una pugnalata nella carne viva e dal dolore ha cominciato a piangere, i muscoli della vagina contratti nel doloroso inutile tentativo di opporre resistenza. Il suo inguine bruciava e anche la gola le bruciava, e lui affondava le unghie nei suoi glutei o le strizzava avidamente i seni. Angela sentiva il rantolo di lui e piangeva per lo schifo, basta in nome del cielo basta!, e lui le premeva la mano sulla bocca e sudava e gemeva.
E lei
         non ha
                    potuto
                                far nulla.
Dopo.
Dopo, con tutta la dignità che la situazione consentiva, Angela si è tirata su le mutande, si è tolta le décolleté ed è corsa in bagno. Il sangue le colava giù per le cosce e la faccia era impiastrata di muco, lacrime e mascara. Si ripulì alla bell'e meglio e chiamò a casa per farsi venire a prendere. Suo padre pensava che fosse ubriaca; un mese di punizione.
Appena a casa, Angela si chiuse in bagno e riempì la vasca. Si guardò a lungo allo specchio senza riconoscersi; cercò su di sé le tracce di quello che era appena successo. Aveva due succhiotti sul collo, del sangue secco tra le gambe, graffi sul sedere. Vomitò; non si era mai sentita tanto sudicia, puzzava di alcol, di succhi gastrici, di pesce. Rimase distesa nell'acqua per un'ora, fino a che le dita delle mani e dei piedi diventarono incartapecorite. Ha continuato a vomitare e lavarsi a fondo anche nei giorni seguenti; non aveva più voglia di mangiare né di avere un corpo. A ben vedere, era stato lui a tradirla.
E quindi langue nel suo bozzolo, cercando una purezza eterea che per ora le sembra inarrivabile.
-Non vuole il pollo né il tonno, non vuole uscire, sta a ore nel bagno...- , esplode la madre.
-Sarà l'età-, commenta il padre studiando gli importi delle bollette di questo mese.
Angela anche oggi ha preso il bus 15C per tornare da scuola, è scesa davanti alle Poste e sta rincasando a piedi. Si sente particolarmente leggera e debole e ha i sensi lievemente offuscati. Realizza di fare fatica a respirare, una vampata di calore la infiamma, la pelle brucia di nuovo, e lei di nuovo sente il peso del corpo di lui che la costringe al muro. Angela suda e sente le mani del ragazzo dappertutto; le tremano le gambe e i polsi, sente il sangue pompare veloce e le impronte di lui sono marchi a fuoco ancora roventi, e lei è solo un buco in cui lui si diverte ad infilarsi....
- Oddio, mi gira la tes...-.
Sipario.

venerdì 21 settembre 2012

L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE

"Non si può mai sapere che cosa si deve volere perchè si vive una volta soltanto e non si può nè confrontarla con le proprie vite precedenti, nè correggerla nelle vite future.Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perchè non esiste alcun termine di paragone. L'uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato."


"L'amore è il desiderio della metà perduta di noi stessi."

"Quando ero piccolo e sfogliavo il Vecchio Testamento raccontato ai bambini e illustrato con le incisioni di Gustave Doré, vi vedevo il Signore Iddio su una nuvola. Era un vecchio, con gli occhi, il naso e una lunga barba,e io mi dicevo che se aveva la bocca doveva anche mangiare. E se mangiava, doveva anche avere gli intestini. Quell'idea mi faceva venire subito i brividi perché io, pur appartenendo a una famiglia più o meno atea, sentivo che l'idea degli intestini di Dio era una bestemmia."

Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere

giovedì 20 settembre 2012

IL CASO E' CHIUSO

Le 11,36 di un martedì di ottobre.
Si era sentita una raffica di spari provenienti da una palazzina in via Togliatti; alla polizia erano arrivate una dozzina di chiamate, voci tra l’allarmato e l’eccitato. Fu subito mandato sul posto il Commissario Salvi.
Quello che lui e i suoi uomini trovarono facendo irruzione nell'appartamento al secondo piano fu: una casa perfettamente in ordine, nessun segno di effrazione a porte né finestre e un cadavere dal petto martoriato da una generosa scarica di proiettili. Il povero diavolo era sdraiato sul pavimento supino, la braccia spalancate come Nostro Signore Gesù Cristo sulla croce.
-Ahiahiahi.....- il commissario si avvicinò al corpo ed esaminò il torace, una poltiglia di sangue semirappreso, cotone misto poliestere e pezzi di interiora. - Devono aver usato una pistola mitragliatrice, forse una Beretta 93R-.
-Commissario, abbiamo trovato i documenti d'identità: Bruno Cozza, nato a Viterbo il 3/07/1962-.
-Sposato? Famiglia?-
-No, celibe-.
-Professione?-
-Impiegato presso le Poste-.
Luigi Salvi si lisciò le sopracciglia e si grattò energicamente il naso.
-Commissario....la gente qua fuori chiede se può essere utile per le indagini....se si deve tenere a disposizione... Cosa gli dobbiamo rispondere?-
Già; il sangue attira sciacalli e avvoltoi, gli stessi che non mancano di fermarsi a leggere ogni nuovo necrologio e che abbassano il volume della TV per sentire il vicino che litiga con la moglie.
-Ai giovani di' di andare a casa, che si diano da fare per rimediare al calo delle nascite; ai vecchi invece dici di smettere di andare contromano in bicicletta. Prima o poi ne tiro sotto qualcuno....-
-Ma signore...-.
-Fusco, cosa vuoi che ti dicano? “Era una bravissima persona, ieri mi ha anche aiutato a pettinare il mio micetto...”, “una buon'anima, tutte le mattine innaffiava le sue piantine di basilico”. Non ho voglia di perdere tempo con le donnicciole!-
L’ispettore continuava a tentennare; era un tipo zelante e preciso sul lavoro, ma apparteneva a quella categoria di persone che non sa dire di no a nessuno. Salvi sbuffò e si rivolse al viceispettore. - Paternò, per amor di Dio, vai tu...-
-Sì, signore-. Vincenzo Paternò, un metro e novanta di freddezza palermitana. Giusto come un limoncello a fine pasto.
-Di' un po', Fusco sei sposato? Fidanzato?-
-Fidanzato, signore-.
-Con la tua donna almeno ci sai stare sopra?-
Il brigadiere arrossì.
L'appartamento era piccolo, il mobilio vecchio, la tappezzeria opprimente; la scala cromatica del salotto andava dal giallo senape al verde salvia e un velo di marrone. Il divano era di similpelle rigida e stinta, su uno scaffale erano raccolte palle di neve, miniature di monumenti e chiese, souvenir fatti con conchiglie e fil di ferro; Salvi attraversò il salotto a grandi falcate e passò nella stanza adiacente. La cucina era ancora più striminzita del salotto; il commissario si avvicinò al tavolo coperto da una tovaglia incerata su cui era poggiata una ciotola portafrutta in ceramica bianca. Salvi si chinò: la frutta era di plastica.
Sul fornello stava la moka ancora tiepida. Aprì gli sportelli della dispensa: tonno e carne in scatola, barattoli di fagioli e di passata, pane in cassetta, cetrioli sottaceto e, Gesù!, crauti e asparagi in lattina. In un cassetto trovò le ricevute di bollette e affitto regolarmente pagati, in frigo un paio di lattine di birra e delle sottilette. Cominciava a deprimersi sul serio.
Dette una rapida occhiata anche a camera da letto e bagno, ma non trovò nulla che non appartenesse ad uno stile di vita mediocre e pressappochista. Copriletto sobrio, vestiti ordinari e leggermente retrò ( pantaloni di velluto a coste, giacche con toppe ai gomiti, pullover extralarge) in un armadio che odorava forte di naftalina, l'armadietto dei medicinali ben fornito di pastiglie contro la diarrea, collutorio e analgesici.
-Commissario....-. Fusco si era materializzato sulla soglia del bagno tenendo nella mano opportunamente guantata una rubrica. - Abbiamo rintracciato la famiglia; una sorella che abita in provincia di Torino, sposata con due figli. Non lo vede da Natale, si sentivano di tanto in tanto e sa poco e nulla della vita privata del fratello.... Poi c'è la mamma novantenne in un ricovero qua vicino. E' affetta da demenza senile da quasi dieci anni-.
-Altri contatti? Colleghi, amici, amanti? Il numero di qualche mignotta?-
-Stanno interrogando i condomini...gli altri numeri in rubrica erano più che altro del dottore, l’elettricista, il dentista...cose così. Utilità-.
-Apparentemente un eremita asessuato, quindi. Impossibile che abbia dato noia a qualcuno, un tipo così. Che giocasse d'azzardo e si fosse inguaiato? Andate a fare qualche domanda nei bar in zona... -
-Sissignore-.
Si diressero entrambi verso il salotto, dove Bruno Cozza e il suo ventre aperto stavano in balia di diverse paia d'occhi. Salvi ignorò il cadavere e si avvicinò invece alla libreria; si stupì nel trovare Schopenhauer, Nietsche, Kierkegaard, Pavese, Sartre. E ancora: Camus, Rousseau, Levi, Ionesco.
Era sinceramente ammirato. Frugò nei cassetti del mobile e trovò taccuini su cui erano meticolosamente registrate tutte le spese di ogni mese da dodici anni a questa parte. – “ Lenzuola in flanella; tachipirina; cena fuori con sig. Rizzo...”- passò in rassegna una pagina di quegli elenchi certosini. In un raccoglitore erano conservati ritagli di giornale: articoli che trattavano di inflazione, potere d'acquisto, passaggio da lira a euro, cambio euro-dollaro. Bruno Cozza, economo nichilista.
Salvi sfilò La luna e i falò e lo sfogliò; passò in rassegna qualche altro volume. C'erano passi sottolineati o segnalati con serpentine e frecce a margine. O con punti esclamativi.
Personalità più interessante di quanto potesse apparire dalle sue scelte in fatto di design d'interni. Mise da parte libri e bloc-notes e si diresse verso il cadavere. Lo guardò bene in viso: il mento e la mascella erano incrostati di sangue, ma sulla bocca era disegnato un lieve sorriso che sembrava, sì sembrava proprio di....sollievo. E le braccia (lo notava solo adesso) erano spalancate come se avesse voluto offrire il petto al suo cecchino. Bersaglio volontario.
Il caso richiese ancora qualche giorno di raccolta di testimonianze e ricerche nelle pieghe del quotidiano della vittima. Incrociando tutti i dati, il blob informe di una possibile soluzione cominciò a prendere forma nella mente del commissario. Salvi attese l'ultima conferma alla sua tesi, poi convocò la sua squadra. - Caso Cozza- esordì. - Nessun tentativo di furto o scasso, nessun conto da regolare, un tipo che non ha molestato la figlia o la moglie di nessuno, che sembra non avesse nemici né amici, quindi apparentemente nessun movente. Regolare conto in banca, né congruo né esiguo, affittuario e condomino tranquillo e puntuale nei pagamenti, scapolo incallito. Perché lo dovresti ammazzare, uno così?-. 
-Per pietà....-. Ridacchiare sommesso.
-Più o meno era che volevo arrivare, Iodice. Non c'è colpevole, e anche se ci fosse, non lo troveremo mai. Il carnefice in realtà è un benefattore: Bruno Cozza voleva morire. Si faceva pietà da solo, proprio pietà; era talmente impantanato nella mediocrità e nell'insoddisfazione che poteva decidere se continuare a galleggiare come aveva fatto fino ad allora, oppure se lasciarsi andare a fondo, perché alla fin fine era meglio così-.
Si sollevarono obiezioni a questa ipotesi, era semplicemente grottesca. C'erano magari elementi che erano sfuggiti loro o piste che non avevano considerato. Sicuramente si poteva arrivare ad un risultato più logico, più accettabile....
- Cozza voleva morire- ripeté il commissario con decisione, - Era un uomo oberato dalla preoccupazioni economiche, viveva nelle riflessioni filosofiche dei suoi libri che leggeva in un salotto che era la quintessenza dello squallore, mangiava da solo cibi in scatola.....e sorrideva mentre gli sparavano, capite? Sorrideva-. Sostenne gli sguardi increduli dei suoi sottoposti.- Ma voi credete pure quello che volete; per me, il caso è chiuso-.

martedì 18 settembre 2012

PASTA AL PESTO



                                                           Another love song

Per E.

 
Lui e Lei non sono mai destinati a stare insieme. Non importa se si amano davvero; prendete “Casablanca”, ad esempio. Il vero amore esiste solo nelle commedie romantiche con Meg Ryan. Questo mi hanno insegnato 28 anni di vita su questo pianeta, questo e che non bisogna mettere la moka in lavastoviglie. Specialmente se le siete affezionati.
E’ quasi ferragosto; per stasera è in agenda una riunione chez moi per organizzare un falò sulla spiaggia. Dalla parete, Kim Basinger mi lancia uno sguardo languido; Dio, quant’è gnocca in 9 settimane e ½.... Mi sdraio sul divano canticchiando a mezza voce “You can leave your hat on” e cado addormentata.
Mi risveglio nel panico, con un pungente sapore metallico in bocca e la convinzione che sia tardissimo. Sguardo al display del cellulare: 19,30. A che ora arrivano? “Alle otto”, mi rispondo.
E’ tardissimo.
Be’, io adoro fare le cose di fretta; è come se lanciassi una sfida al tempo. E quando è lui a vincere, io perdo il treno o prendo una multa per eccesso di velocità. Stasera finiamo in pareggio.  Quando suonano alla porta i miei ricci sono ancora umidi e mi sono passata il kajal solo sulla palpebra destra. Però l’incenso arde silenziosamente in salotto, i posacenere sono svuotati e non indosso più la t-shirt dei Metallica.
Non conosco tutti; ci sono un paio di amici di amici chiamati per fare numero. Da brave carogne, tendiamo ad evitare di includere le coppie. Che se ne stiano pure a pomiciare sul loro divano, perdio.
Si stappino le birre, che la seduta abbia inizio. Dapprima c’è la solita caciara di idee inconcludenti, con la piattola di turno che deve trovare questioni e cavilli su cui continuerà a insistere fino alla sera del falò, con quel gusto per il dettaglio nanoscopico di ingegnere termonucleare. Mi accendo una sigaretta. Bado ad aspirare profondamente, a trattenere il fumo in bocca e a soffiarlo fuori piano piano, lentamente, formando rivoletti bianchi. Detesto le questioni pragmatiche ; le minuzie organizzative mi annoiano.
Dopo un’ora si è deciso chi porta la sangria, chi la legna, chi la chitarra e via discorrendo. La comitiva comincia a dileguarsi, un tripudio di saluti, bacetto-bacetto sulla guancia e scalpiccio di passi che si allontanano giù per la tromba delle scale. Rimane la desolazione delle bottiglie ambrate abbandonate sul tavolo, pacchetti di Pall Mall vuoti, un accendino verde scarico. Però lui indugia.
E’il solo a non essersene ancora andato; sta guardando le varie locandine cinematografiche appese con interesse ( vero o simulato, difficile a dirsi). Mi sembra di ricordare che lui sia il tipo che suona la chitarra.
-         Ti piace il cinema francese?-
-         Come?-. Mi prende talmente in contropiede che, nonostante abbia sentito perfettamente quello che ha detto, non riesco a cavarne fuori il senso.
-         Ti piace il cinema francese?
-         Ah....sisì, ma non lo conosco bene... non bene come quello italiano o americano-.
-         Hai mai visto Jules e Jim?-
-         No-.
-         Guardalo. Lo adorerai-.
-         Ah be’...grazie...chi è il regista?-.
Mentre lui disquisisce su Chabrol, appunto lo sguardo sul suo ciondolo di legno e sulle piccole lentiggini che puntellano naso guance braccia e gambe. La voce di questo estraneo (Gesù, com’è che si chiama??) riempie le stanze, si impone, diventa solida e tangibile. Meccanicamente comincio a togliere le birre vuote dal tavolo. Con movimenti lenti e senza smettere di guardarlo. Si avvicina prontamente a me e afferra lesto le bottiglie rimanenti. Anche io torno a muovermi a velocità normale- qualcuno deve aver tolto il fermo immagine.
Ormai sono le nove e mezzo passate. Le ultime gocce di sole si sono asciugate.
-         Avevi programmi per stasera?-. Getta nel pattume l’ultima lattina.
-         No, non sapevo quanto ci avremmo messo ad organizzare....e tu?-.
Scuote la testa riccioluta, si gratta la nuca. – Non proprio, forse uno spritz al bar e poi film. Roba così-.
Annuisco. Cosa dovrei fare o dire ora da copione? Se ne vuole andare? E io voglio che se ne vada? Mi figuro la scena: dopo averlo liquidato con una banalissima scusa x, richiudo la porta alle sue spalle, mi giro e vago per le stanze vuote. Avrò la libertà di stropicciarmi gli occhi impiastrandomi i polpastrelli di nero e sbavando il trucco. Tuttavia avverto una desolata tristezza, come dopo che hai ingoiato l’ultimo boccone di torta e raschi il piatto per raccogliere i rimasugli di pasta frolla e crema. Oppure come quando, da bambini, una festa di compleanno finisce e si rimane soli con i palloncini mezzi sgonfi, gli incarti e i nastri dei regali dimenticati in un angolo, vassoi semivuoti di tramezzini e pizzette sbocconcellate.
E allora sento la mia voce articolare una domanda; sì, perché non mi va di piangere sulla nostalgia degli avanzi. – Ti va di mangiare qualcosa?-.
- Volentieri. Andiamo fuori? Pizza?-.
- Mhmm....-. Apro il frigo. Tre lattine di Guinness e un barattolo di pesto.- Pasta al pesto? Ti va?-.
- Perfetto-.
Tra i vapori dell’acqua bollente a l’odore di basilico esploriamo l’uno la vita dell’altro. Alessio, ecco come si chiama. Rimasto con me per un piatto di pastasciutta. Non se n’è più andato.

lunedì 17 settembre 2012

ANCHE I GATTI PIANGONO



Era tutto lontano anni luce.
Tutto – ovattato, annuvolato, torbido. Nessun reale entusiasmo o brivido, nessuna vertigine abbastanza potente da togliermi il fiato. Un'anestesia totale che durava da mesi.
E' incredibile la fragilità del creato; anche il più granitico dei pilastri può improvvisamente disfarsi e sbriciolarsi come un biscotto ben inzuppato nel latte.
E poi ho perso anche lui.
Di mio padre e Francesco mi sono rimasti solo una manciata di bei ricordi e le foto che scattavo loro a tradimento. Entrambi crudelmente sottratti al mio tatto, alla vista - non poter più aspirare il loro odore.
Si dice che chi ti ama non ti abbandona mai veramente. Che rimane sempre accanto a te. Lo spirito fluttuante dell'amore cosmico, tuttavia, molto spesso non basta a soddisfare la fame dilaniante di quella voce in tutta la sua materialità, toni ascendenti e discendenti, risate, pause e balbettamenti.
In quel periodo avevo sempre freddo, sempre freddo. Però almeno ho imparato a non piangere. All’inizio le lacrime mi sorprendevano nei momenti più disparati, premevano per uscire a tradimento mentre io ero a lavoro o guidavo o passeggiavo per strada. Poi però nemmeno frignare aveva più senso. Ero come rimasta in secco, nemmeno più le energie per singhiozzare.
Sapevo che l'unico modo che avevo per salvarmi era proteggere quello che loro mi avevano lasciato. La sera mi chiudevo in camera, a volte rimanevo in silenzio sul letto a visualizzare memorie e parole, a volte frugavo nei cassetti alla ricerca di oggetti. In realtà tutto nel mondo mi parlava di loro ed emanava fragranze di tempi andati.
Il trucco era  smettere di guardare le crepe e le ragnatele e la muffa, e riuscire ad apprezzare la bellezza di quelle esperienze.
Allora mettevo su un disco dei Pink Floyd, mi accendevo una Lucky Strike e ripensavo a quando andavo da Francesco dopo il lavoro. A volte lo trovavo che schizzava bozzetti a carboncino, altre che cucinava il cous-cous, e fin dal vialetto fuori casa si sentiva l'aroma del curry.
Ricordo una sera in particolare: lui non aveva niente in frigo, aveva speso tutti i soldi per dei vinili che cercava da tempo e non gli era rimasto un centesimo per fare la spesa. Abbiamo frugato in tutte le dispense per racimolare qualcosa e alla fine abbiamo banchettato con penne all'olio, assenzio e Nick Cave& the bad seeds.
Stavamo delle ore a dipingere senza scambiarci una parola, dividendoci le ultime sigarette del pacchetto e passandoci i colori. Di parlare, non ce n'era bisogno.
Certo, altri momenti sono stati orribili, davvero orribili: quando lui cadeva in quello stato depressivo acuto, per esempio. Mi guardava mentre parlavamo ma era evidente che non mi vedeva; e io a mia volta non riuscivo a toccarlo. Cioè magari lo prendevo per le spalle e lo scrollavo o lo abbracciavo o gli tenevo la mano, ma non riuscivo davvero a sentirlo. Era – semplicemente- troppo lontano. Allora io facevo di tutto per riprenderlo, di tutto, ma era come cercare di afferrare del fumo che esce da un comignolo; e io continuavo a saltellare e sbracciarmi come una forsennata, torna giù per Dio, torna giù!
Invece seguivano frasi sibilline,ermetiche, drasticamente nichiliste a cui io opponevo sempre lo stesso interrogativo: perché non ti basta il mio amore per stare bene? Perché non ti basto io per guarire il tuo male di vivere?
Una risposta non è mai arrivata. Era questo che mi uccideva.
Non potevo certo immaginare che il cancro che stava facendo marcire la nostra vita insieme nel frattempo stesse corrodendo anche il fegato di mio padre.
Le Lucky Strike, le fumava Francesco; io continuavo a comprarle. Per sentire ancora il sapore della sua bocca.
Di mio padre invece aspiravo ingorda le tracce olfattive rimaste sui suoi pullover, sfogliavo i suoi libri cercando annotazioni a margine e dediche, giocherellavo delicatamente con gli occhiali da lettura. Anche il gatto sentiva che c’era qualcosa che non andava; e non che lui e papà fossero in buoni rapporti. C’era una sorta di competizione su chi dovesse essere il maschio dominante. Le pubblicità del cibo per gatti erano sempre un buon motivo per attaccare sermoni chilometrici sui nuovi target del mercato sciacallo, “le zitelle e le vecchie gattare che danno da mangiare alle loro palle di pelo cose che, al tempo di guerra, la gente se le sognava.....”. Romeo, la nostra palla di pelo, lo capiva che quelle invettive erano rivolte a lui. E non si faceva troppi scrupoli ad infilarsi tra le gambe del babbo mentre camminava, facendolo quasi inciampare. Si è beccato svariate pedate nel didietro per questo. Nonostante ciò, Romeo ora si aggirava dubbioso intorno alla camera da letto dei miei genitori oppure fissava il divano, il posto a sinistra, quello in cui il babbo si sedeva a leggere il giornale. Una volta l’ho trovato steso a pelle d’orso in mezzo al salotto che rantolava lievemente. Mi chinai per accarezzarlo; allora lanciò dei miagolii strozzati, angosciati. Mi spaventai; sembravano le grida di qualcuno che stesse soffocando. Evidentemente, anche i gatti piangono. Per me Romeo, assieme ai pullover, libri e tutto il resto, era un personaggio di un quadro ormai datato, un quadro di un’epoca che ha avuto un inizio e una fine.
In quei giorni, tutto il mio essere era impegnato a trattenere ricordi. Ad evocare due voci che mi avevano lasciato solchi profondi, che avevano saturato di poesia al mio passato ma che erano – drammaticamente- esclusi dal mio futuro.



domenica 16 settembre 2012

TUTTI INSIEME APPASSIONATAMENTE



L’ennesima cena in silenzio.
Un mese di terrorismo psicologico ed isterismi per andare in vacanza tutti insieme, e questo è il risultato. Mia madre e mia zia cucinano pasti pantagruelici e cominciano a pianificarli fin dalla mattina. Stanno sulle sdraio, i capelli malamente raccolti con pinze di plastica colorata, e progettano intingoli e pasticci mentre il palato sa ancora di caffè e croissant. Poi si spalmano energicamente la crema solare e allora rotolini e cosce tremolano come mozzarelle.
E dopo un gran tagliuzzare, rimestare, salare, tritare e marinare ci sediamo a tavola – ed è il Nulla. Il Niente Cosmico.
A volte si ottiene il permesso – la grazia- di accendere la TV. Quando non è così, prendiamo posto spostando più o meno rumorosamente le sedie, guardandoci nervosamente intorno, chiedendoci scusa se, in due,  allunghiamo contemporaneamente la mano verso la stessa bottiglia d’acqua. E per quanto festosi, colorati e invitanti possano essere i vassoi in tavola, quando anche l’ultimo commensale si è seduto tutto si ricopre di un’ottusa patina grigia. Indifferenza, ipocrisia: chiamatela come volete. Per ma ha la solida consistenza del pane integrale e odora di soffritto.
Capita che ci siano goffi avvii di conversazione che però muoiono dopo poche battute.
Mia cugina è estremamente schifiltosa, cosa che manda in bestia mia madre. Anche stasera ad esempio Elisa ha preso la forchetta arpionandola con le lunghe unghie squadrate ( e french bianco). Ha la pazienza certosina di scartare tutti i piselli nelle verdure in umido. Mamma la fissa ruminando sdegno e sbuffando sonoramente dalle narici. Nessun altro fa caso alla scena ( o preferiscono non farci caso); mio zio si serve generosamente di patate e poi fa girare il vassoio. E’ proprio il tubero a distrarre mia madre, distogliendola una volta per tutte dall’esilio dei piselli.
Poi è il solito strazio: noi zitti, gli unici rumori il ronzio del frigo, il tintinnio coltello- forchetta o forchetta-piatto, il raschiare del mestolo e lo splash dell’umido che atterra nel piatto. Poche parole timide e tese, sassi lanciati nel vuoto. Mi sembra di stare in una scena di una commedia dell’assurdo, dove ognuno parla un non-linguaggio che l’altro non capisce e le azioni dell’uno non corrispondono alle reazioni dell’altro.
Zoomo su mio zio che si ingozza di patate e stacca dei gran morsi alla sua fetta di pane. Briciole rimangono intrappolate tra i baffi a spazzola grigi. Papà suda abbondantemente, ogni tanto fruga nella tasca dei bermuda rosapesca e tira fuori il fazzoletto con cui si tampona il viso. Beve a veloci sorsate il vino fresco, deglutendo rumorosamente e concludendo con un soddisfatto “aaaaaah!” a mezzavoce una volta svuotato il bicchiere.
Quanto a me, io me ne sto seduta a gambe strette, le cosce che ancora bruciano dopo una giornata sulla spiaggia. La pelle calda mi fa sentire consapevole di avere un corpo. Il prendisole a fiori della zia, la tovaglia cosparsa di briciole, il biascicare e lavorare di mandibole, tutto stride con il contenuto dei miei pensieri. Il ventre mi si torce dal desiderio, un bisogno spasmodico di voce muscoli e ciglia-  di lui.
La mucca portamestoli accanto al lavello mi sorride strabica; mi immagino per un istante un atto di possesso sul ripiano di granito – una pennellata veloce dell'immaginazione e subito sento una vampata di calore in grembo.  - TARATATA’, SCOPRI LA NUOVA FORD SABATO E DOMENICA...- Zio ha silenziosamente agguantato il telecomando e acceso l’apparecchio. Sempre biascicando pane e patate lui e papà attaccano a discorrere su consumibenzinagplprestazionieaccise. Le pubblicità si susseguono incalzanti, rumorose e moleste, Elisa smanetta con l’i-Phone picchiettando delicatamente l’artiglio laccato sullo schermo, mentre con l’altra mano si torce una ciocca di capelli bruni accuratamente ed energicamente piastrati. C’è ancora la frutta da affrontare prima che la cena possa dirsi ufficialmente conclusa; dopo quest’ultima fase, quella dello sbucciare lavare piluccare togliere semi, asciugarsi succo che cola sul mento, ci potremmo alzare. Gli uomini in genere si piazzano sul balcone o sul divano e l’aria si riempie dell’aroma del caffè.
Io esco; me ne vado da sola sul lungomare o a riva. Nell’alito di vento serale intriso di salsedine volano via l’odore di cipolla, le unghie di mia cugina, l’insulsa tovaglia a righe bianco-rossociliegia. Mi concentro per sentire la brezza infilarsi tra i capelli e insinuarsi sotto la gonna. Che mi accarezzi almeno il vento.... E visto che le mie mani non possono avere la sua pelle, si accontentano di lisciare i miei capelli, torcendoli e pettinandoli.
Patetica? Semplicemente sincera: ho scoperto quanto sia importante il tatto, la solida tonicità di muscoli fibre vene pulsanti e capezzoli e lobi. Al di là di qualsiasi retorica su sentimenti ed empatia, la fisicità conta. ( Ecco che i tegami gorgogliati e fumanti che riempiono di vapore la piccola cucina arancione della nostra casa delle vacanze sono ormai storia  antica, abitanti di un pianeta di una lontana galassia).
Anche stasera vado sulla spiaggia; mi tolgo le infradito e percepisco la granulosa sensazione della sabbia umida. Pazzesco quanto insignificanti ed evanescenti possano essere le persone intorno a noi, e quanto invece sia tangibile la presenza di chi è lontano.

sabato 15 settembre 2012

PIOVE SULLA DOMENICA




Piove.
E’ domenica pomeriggio, e piove. Piove irrimediabilmente.
Non è esattamente come nel pineto di D’Annunzio, l’umidità mi ostruisce i pori della pelle e mi si appiccica al cervello.
Non riesco nemmeno a capire che ore possano essere, è da stamani che il cielo è coperto da spesse cortine grigie. Sbircio il timer del pc sulla barra delle applicazioni: 14.28.
Gesù.
Il tempo passa lento come un ottuagenaria che viaggia su una Graziella senza cambio.
Mi ritrovo, dopo sette anni di convivenza, sola. Sola contro l’ennuie domenicale, il male di vivere degli scapoli. Almeno avessi un gatto.
Mi dicono che sono una roccia per come sto affrontando tutto questo; come no. Guardate bene, avvicinatevi. Vedrete quante crepe sulla superficie di granito.
Appena ho scoperto che Gianluca se la faceva con le sue alunne ( tutte rigorosamente sotto i 17), ho provato l'accecante desiderio di cancellarlo, disinfettare la mia vita dalle sue impronte sudice di sperma, espellerlo dai miei giorni.
Ero fuori di me; mi sentivo altrettanto sporca solo per avergli concesso di toccarmi e bere dal mio stesso bicchiere. Volevo depurarmi.
E il senso metaforico non bastava; averlo allontanato, costringendolo a riprendersi tutti i suoi merdosi regali e le foto e lettere e tutto quanto, non bastava. Era dentro che mi sentivo il fango. Il disagio mi ha spinto ad entrare in farmacia e comprare due confezioni di lassativi.
Lassativi; semplice, no? Se devi espellere, è quello che ci vuole.
Aspetto che facciano effetto con una sorta di ansiosa euforia, mi sono persino abituata ai crampi all'intestino; e dopo quella beata sensazione di svuotamento. La dolce illusione che dalla tabula rasa si possa ripartire di nuovo.
Ovvio che ci siano effetti collaterali; ma chi beve solo acqua ha qualcosa da nascondere. Non ho un'opinione così alta della razza umana da credere che si possa vivere senza vizi. Che sia vodka, hashish o purgante.
Se funziona? Sul momento mi sento onnipotente: ho indotto il mio corpo a svuotarsi dalle scorie, l'ho piegato alla mia volontà. C'è un che di ascetico che rende un po' più dignitosa la faccenda: le escrezioni non sono solo del corpo, ma anche dello spirito. Sto come procedendo attraverso un percorso al termine del quale sarò di nuovo pura.
Ma non dura molto. E' una vittoria di nebbia, e l'unico bottino è un ventre perfettamente piatto.
Non so in che modo scuotere questo encefalogramma piatto. Intanto le goccioline continuano a tamburellare sui vetri; dalle finestre semiaperte entra l'odore di asfalto ed erba bagnati.
Sbatto le palpebre; sono davanti alla home page di Facebook da quaranta patetici minuti. Osservo comparire lentamente gli aggiornamenti di stato dei miei contatti. “Giulia Peluso: voglio il soleeeeeeeee! 23 minuti fa”.
La batteria del portatile ronza. Gente entra ed esce dalla chat. “ Voglio il soleeeeeeeeeeeeee! 31 minuti fa”.
Ho la nausea. Le mille “e” di sole sono irritanti, mi danno il prurito, sono ottuse e insensate come questa farsa mediocre che ha la pretesa di chiamarsi “domenica”.
Chiudo il computer. La settimana scorsa sono stata al piccolo centro commerciale della zona; mi sono fermata al bar senza avere particolarmente fame o sete. Ho dato un'occhiata al bancone; dietro la teca trasparente languivano brioches mosce, un paio di pizzette incolori,un panino solitario e focacce visibilmente indurite. Avanzi, scarti, relitti spiaggiati a riva. Come me. Sarebbe bastato quel quadretto a deprimermi. Invece sono andata fino in fondo, e ho vagato per i reparti del supermercato senza comprare nulla, ho fatto finta di dare un ‘occhiata alla vetrina del negozio di scarpe e borse e, in edicola, il giornalaio mi ha regalato l’ultima copia del quotidiano.
Ed eccomi qua, una settimana dopo, incapace di spostarmi dal divano, con una felpa macchiata di smalto e sugo a vegetare di fronte al social network per eccellenza; uno spettacolo davvero edificante. Fossi almeno Bukowski, tracannerei qualche birra, andrei in bagno a masturbarmi e poi mi metterei alla macchina da scrivere per tirare fuori qualche racconto sordido e caustico. (E comunque dubito che Charles si sarebbe iscritto a Facebook).
Potrei almeno uscire. Sarebbe già qualcosa. E il televisore la smetterebbe di fissarmi minaccioso, in tutta la sua concretezza grigiofumo, lo schermo spento che riflette la mia immagine. La domenica alla televisione l’umanità si rivela nei suoi aspetti più abietti e riversa in onda il peggior pattume concepito e prodotto dai cugini evoluti della scimmia. Dovrebbero consigliarlo anche i dottori:- Mangi tanta frutta e verdura, eviti grassi e fritti, mezz’ora di attività fisica al giorno e niente TV la domenica. Si fidi, si sentirà rinascere!-
Insomma, se io ora uscissi di casa e fossi in una squallida commedia americana, incontrerei senz’altro un aitante giovanotto senza ombrello e gli offrirei riparo sotto il mio; oppure in un negozio di dischi tutti e due adocchieremmo l’ultima copia di una rarità, ci guarderemmo sorridendo timidamente ed entrambi insisteremmo perché sia l’altro a comprarlo. Galeotto fu l’ombrello, o il cd, insomma. (Gesù; ma questi registi hanno ancora la presunzione di credere che il pubblico dai 13 in su si emozioni davvero per questa roba?).
Credo che andrò al cinema; la domenica al “Roma” danno sempre film d’autore. Se sono fortunata, oggi magari c’è Woody Allen in programmazione. Ne avrei davvero bisogno: cinismo e satira in dolby surround. Bukowski approverebbe senz’altro.

venerdì 14 settembre 2012

L'UOMO NEL BARATTOLO




C'era una volta un uomo che ha vissuto la sua vita guardando il mondo da un barattolo di vetro.
Era curioso, gli piaceva osservare i suoi simili. Li trovava uno spettacolo quanto mai imprevedibile e appassionante, eppure aveva paura ad avvicinarvisi troppo; è come quando si sta davanti al caminetto acceso a fissare le fiamme danzanti, ma ad una certa distanza per non finire scottati. Quindi, per proteggersi, decise di infilarsi in un barattolo dopo aver opportunamente provveduto a praticare forellini sul coperchio per far entrare aria.
Così se ne stava accovacciato sul fondo e guardava beatamente i passanti nel parco, gli avventori dei bar, i venditori esporre la loro mercanzia sulle bancarelle. Quando pioveva, sentiva le gocce tamburellare sul tappo e capitava anche che un po' d'acqua si infiltrasse dai buchi per l'areazione, cosicché doveva comunque tenere aperto l'ombrello. I rigagnoli d'acqua che scivolavano sul vetro appannavano e deformavano il panorama e se la pioggia era particolarmente abbondante, non si vedevano altro che macchie indistinte di colore.
Ogni tanto s'appostava sotto una panchina e guardava il via vai di gambe e zampe e ruote; e basandosi sulla sola osservazione delle scarpe, tentava di schizzare il ritratto del proprietario. Tirava fuori profili psicologici da mocassini, anfibi, sandali, zoccoletti, scarpe di vernice lucida o di camoscio o di tela, tacchi a spillo, zeppe.
Altre volte, quando si sentiva particolarmente generoso verso sé stesso, se ne andava al ristorante; non era tanto il cibo ad interessarlo ( anche se non disdegnava la buona cucina) quanto l'atmosfera di convivialità che vi si respirava. Al tavolo lungo in fondo alla sala, per esempio, c'era una comitiva numerosa, presumibilmente una cena di famiglia cui prendevano parte almeno tre generazioni. Un anziano pasciuto abbrancava con la forchetta grovigli di fettuccine grondanti di sugo, pulendosi le labbra unte dopo ogni ingordo boccone; due vecchiette si gingillavano con i loro fili di perle e conversavano fitto fitto. A uno dei commensali che voleva versar loro da bere risposero di no scuotendo l'indice per aria con gran foga e un'espressione esageratamente contrita. L'anziano invece si fece servire il rosso più volte, trincando con evidente soddisfazione.
Le due signore invece tornarono ai loro discorsi, e c'era da star sicuri che si erano lanciate ad elencare pietanze e bevande proibite (il colesterolo, la pressione alta, lo stomaco che non funziona più...), in una tacita sfida a chi avesse accumulato più malanni.
Per lui era come stare al cinematografo in prima fila; e un altro punto di agglomerazione che era un ghiotto spettacolo erano i mercatini. Quella domenica pomeriggio nella piazza principale c'era il mercato dell'antiquariato: nonni e bisnonni si svuotano le tasche sulle bancarelle.
Specchi fumé, ottone e rame, monete antiche, porcellane ( tazzine da tè, zuppiere, piatti), ninnoli e soprammobili sbreccati e polverosi: sembrava di stare in una litografia dell'Ottocento. Si fermò ad osservare uno stand di vecchi giocattoli. C'erano spade e scudi di legno, bambole con labbra di fragola e ciglia lunghissime, soldatini, pentole in miniatura. E, tra un cavallo a dondolo e un gattino di pezza, un carillon che emetteva una melodia strozzata. Il venditore se ne accorse, lo afferrò e si premurò di dargli la carica ben bene. Ora il bauletto tintinnava dolcemente e canticchiava note argentine; e sopra la cassa musicale era montato un disco rotante su cui – come aveva potuto non  notarlo subito?- danzava una creatura sublime. Era cigno e farfalla, tulipano e schiuma di mare; il suo corpo era armonia rivestita di tulle evanescente, capelli corvini raccolti e adornati da una corona di gigli bianchi, polsi flessuosi.
Di tutte le migliaia di cose che aveva veduto, di tutte le scene e scenette cui era stato partecipe, di tutti gli individui che erano passati nel suo campo visivo, lei riassumeva in sé e trascendeva tutto quanto.
Rimase a fissarla intensamente per alcuni minuti poi, vergognandosi della propria sfacciataggine, si affrettò a passare oltre. Fece qualche giretto lì attorno a casaccio, inseguendo il bruciante desiderio di tornare da lei. Finse di passare di nuovo davanti alla bancarella per pura coincidenza; si fermò qualche banco più in là, poi tornò indietro; era come calamitato, non era mai stato così avido di qualcosa o di qualcuno. Per la prima volta, il solo osservare non gli bastava più. Doveva impossessarsi di lei, impadronirsene, possederla. La luce tenue aggiungeva pennellate di bellezza a quella figura eterea e flessuosa. Era intimidito da tanta grazia. Si gingillò ancora per una buona mezz’ora, vagolando tra i banchetti vicini senza ormai guardare più nient’altro e crogiolandosi nell’estasi crescente del momento in cui lei sarebbe diventata sua...
E quando infine si decise e si avvicinò al banco, l’inimmaginabile era appena successo: un’elegante signora bionda, con le unghie laccate e i capelli raccolti in uno chignon, mostrava estasiata all’amica il suo acquisto nuovo di zecca: il carillon.
Lui rimase sconcertato. Guardava istupidito le donne allontanarsi, farsi sempre più piccole, mentre il bauletto che custodiva la ballerina se ne andava con loro.
E lui rimase semplicemente ad osservare ,come aveva fatto per tutta la vita, le due figure avvolte nei cappotti perdersi nel flusso della folla e sparire per sempre dal suo campo visivo.











SULLA STRADA



Una giornata logorante. Una di quelle in cui i muscoli lavorano senza sosta, in cui ti asciughi il sudore dalla fronte col dorso della mano e in cui ti stropicci gli occhi o massaggi le tempie per trovare ristoro.
La cosa peggiore è che oggi è stato anche particolarmente vuoto, l'apoteosi dei chiacchiericci sul tempo ( osservazioni minuziose su escursione termica giorno-notte, tasso di umidità, eventuali rovesci notturni, temperature previste per la serata e/o per i prossimi giorni; si direbbe che siamo un popolo di potenziali meteorologi), della politica da bar, del chi sta sulla poltrona pensa solo al dio quattrino. Anche le facce dei clienti oggi sembravano tutte grigie, tutte ugualmente insipide, un monotono serrato susseguirsi di “un caffè”, “un caffè alto in vetro”, “un caffè macchiato caldo”, “un caffè macchiato freddo”, “un caffè semialto”.
Ora me ne sto sdraiata sul letto, con il tintinnio dei cucchiaini e della porcellana delle tazzine ancora nelle orecchie. Ho fame, lo stomaco dolorosamente contratto e la bocca piena di saliva. Eppure rimango distesa, a massaggiarmi la porzione di pancia che sbuca fuori dalla camicia e fissare con insolito interesse il lampadario e la sua ombra proiettata sul soffitto. La sola idea di andare in cucina e mettere mano al frigorifero mi sembra più uggiosa e squallida di una domenica pomeriggio passata davanti alla tv. Mi alzo, invece, ed esco. Ho bisogno d'ossigeno, di molta più aria di quella tra le quattro mura del mio appartamento.
Il portone del palazzo si chiude con il solito schianto, il semaforo è rosso; aspettando, guardo chi c'è all'altra estremità delle strisce. Delle quattro persone, spicca una deliziosa ragazza con lisci capelli di liquirizia, un abito fiorito lungo fino alle caviglie e rossetto color ciclamino. Scatta il verde; mentre ci incrociamo attraversando, sbircio il titolo del libro che tiene in mano: Memorie dalla casa dei morti, Fedor Dostoevskji.
Il marciapiede brulica di gente; supero una gracile vecchietta, alta sì e no un metro e quaranta, con una vaporosa acconciatura candida ( zucchero filato!) e un tailleur rosa pesca. Posso vederla mentre si prepara, con la stessa risoluta lentezza con cui ora cammina ( la sua camera: pesanti mobili in legno scuro d'inizio secolo, centrini, il rosario appeso alla testata del letto, foto di chi non c'è più, un quadro della madonna e un odore di borotalco e acqua di viole misto a naftalina).
Comincio a sentire un lieve sensazione di benessere: mi lascio trascinare dal flusso della strada senza che il pensiero di raggiungere una meta a un certo orario per uno scopo preciso mi guidi. Cammino indolente guardando i tetti dei palazzi, i panni stesi sui balconi, i messaggi sui muri ( “Gabrie', fatti senti' che ho perso il numero – Lino”). Passo davanti a una pizzeria al taglio e l'odore pastoso di formaggio fuso, focaccia e peperoni mi riempie le narici; subito il mio stomaco brontola sonoramente. Poche centinaia di metri dopo è invece un intenso aroma di curry ad uscire da un take-away indiano; al secondo piano del palazzo di fronte qualcuno sta ascoltando Joe Cocker. La finestra è aperta e riesco a vedere un poster di Pulp Fiction e un bersaglio per freccette appesi al muro.
Sbatto improvvisamente la spalla destra contro un ragazzo.
-        Scusa...- la voce mi esce rauca; è da un po' che me ne sto zitta.
Scuote appena la testa, scacciando le mie scuse con un gesto frettoloso e senza neppure fermarsi. Torno ad osservare chi proviene dalla direzione opposta alla mia; quanto è variopinta la fiumana del marciapiede... Dalla moltitudine di occhi, braccia ,nasi gambe spiccano tatuaggi, piercing brillanti, mani che giocherellano con riccioli lunghi, rughe, rasta, brufoli, pance rotonde. E' come se il mio si frammentasse in ognuna di queste identità, come se uscissi dalla mia pelle per infilarmi in quella di un altro e poi di un altro e poi un altro ancora.
Decido di tornare verso casa, rifacendo lo stesso percorso dall'altro lato della strada. Una variazione di prospettiva.
Devo di nuovo aspettare il verde del semaforo; poco distante da me, una bancarella di frutta e verdura. Una ragazza (frangetta e lungo dreadlock, felpa zebrata, occhi bistrati di nero e minigonna di jeans sfrangiata) sta scegliendo. - Vorrei cinque pomodori. Ma proprio cinque di numero-. Aggiunge poi- Per favore-, come ricordandosi un momento troppo tardi delle lezioni di buona educazione ricevute da piccola.
- E poi un  cesto di lattuga-.
-Sono uno e quarantanove-. La ragazza fruga nelle tasche ampie della felpa, ed estrae una manciata di monete tintinnanti. Comincia a contarle sul palmo della mano, mordendosi il labbro. Alza la testa -  Non ci arrivo...ma come mai così tanto?- Segue computo della merce al kilo.
- E' che non ci arrivo....allora mi dai solo i pomodori-.  Breve pausa. - Per favore-.
Attraverso mentre il venditore rimette a posto l'insalata e batte in nuovo scontrino. Quei pomodori probabilmente li mangerà in insalata con la mozzarella più a buon mercato che è riuscita a trovare e birra fresca, preludio di una serata di musica ska, spritz e altra birra.
Mi sento sazia. Quel bisogno viscerale (la stessa curiosità che ci spinge a sbirciare fuori dalla finestra quando si sentono delle voci o il motore di un'auto avvicinarsi) che mi aveva spinto ad uscire è soddisfatto.
Solo, mi fermerò a prendere un pezzo di pizza, prima di rientrare a casa.