lunedì 3 febbraio 2014

ENTER SANDMAN

Un altro non-giorno. L'ennesimo martedì o mercoledì o giovedì trascorso in uno stato larvale.
Il tempo è una mastodontica pietra di Sisifo, la pesantezza delle mie palpebre.
Mi manca la voglia di fare qualsiasi cosa; decido che la colpa è dell'angusta sciatteria del salotto (stanza in cui attualmente mi trovo). Potrei dedicarmi a qualche attività intellettualmente stimolante, ma il mio cervello si rifiuta di impegnarsi. Il mio cervello desidererebbe essere stupido e poco esigente, capace di trovare divertimento nei reality show e in Candy Crush. Il mio cervello, se potesse, mi rigetterebbe.
Quindi fisso le macchie di luce sul soffitto. Sono sdraiato sul divano. Sento l'aria che sbuffa dalle mie narici;il ronzio del frigo; voci in strada che si avvicinano, arrivano sotto il mio balcone e si allontanano. Sento la TV della signora Belli; porte e portiere che si chiudono sbattendo; scricchiolii non ben identificati. Il mondo pulsa, vibra, palpita. Io mi dissocio. Sono immobilizzata nell'irreale consistenza del sofà.
Da qualche notte ho anche deciso di smettere di dormire. Mi sono ribellato al mio inconscio, che mi stava torturando con sogni estremamente molesti. Rigurgiti del passato, per lo più. Vecchie cotte, amici persi di vista, la nonna, mio fratello; ordine cronologico assente. Ambientazioni spaziali improbabili. Ma la voce e le fattezze di ognuno di loro erano rievocati con una precisione incredibili.
E poi lei.
Credevo di aver superato brillantemente la fase della rimozione. Invece eccola che ricompare strisciando, a tradimento, irrompe nella mia fase R.E.M. fulgida nella sua decadente bellezza.
Mi dice le cose che avrei voluto sentirle dire.
Ci tocchiamo di nuovo.
Una bruciante nostalgia perfora le barriere dell'onirico e arriva nel reale. Mi si infila sotto le unghie. La mattina poi mi risveglio turbato e irritato dalla mia debolezza. Dalla cieca ostinazione del desiderio.
L'ultima volta che l'ho sognata (questo è successo tre, quattro notti fa) la vividezza dell'illusione era così intensa che, quando sono uscito dal sonno, ho scoperto di essermi perfino eccitato. Se volessi essere signorile, direi che ne sono rimasto alquanto turbato; ma la verità è che mi sono sentito profondamente preso per il culo. Non so da chi – dalla mia coscienza, dal mio subconscio, dal genio maligno cartesiano, dal sonno della ragione che genera mostri. Ma quell'angoscia che mi faceva bruciare le viscere si è aggiunta ai sensi di colpa e i rimorsi, che mi si erano attaccati addosso come pidocchi; succede, quando perdi qualcuno. Perché non puoi più rimediare ai tuoi errori, e la consapevolezza di averne commessi ti si scarica addosso insieme ai “se avessi fatto” e “se avessi detto”: una valanga di merda. E io, lì sotto ad annaspare.
Ho passato gli ultimi giorni a pensare che avrei voluto sdoppiarmi, autogenerare un mio clone e prendermi a schiaffi (o farmi prendere a schiaffi): sentivo che me lo sarei davvero meritato, e l'impossibilità di sopperire a questo bisogno mi ha infastidito.
Allora ho tentato di compensare: sono uscito fuori senza cappotto. Erano 2 °C. Non c'era sole. Giudachefreddo. Ma non sono rientrato. Mi sono acceso tre sigarette di fila. Mi sono rintronato di nicotina e ho lasciato che l'umido mi penetrasse nelle ossa.
Mi rendo perfettamente conto questo mio comportamento non cambierà le cose, ma è una (patetica) conseguenza della mia incapacità ad accettare quello che è successo. Per buona parte me ne imputo la colpa; in fondo la capisco se non vuole più avere a che fare con me. Nemmeno io vorrei avere niente a che fare con me.
E così me ne sto seduto ad osservare la baraccopoli maleodorante e stercoraria della mia esistenza, prendendomi a schiaffi e ruminando autocommiserazione. Di quando in quando striscio nei quartieri alti a mendicare un altro corpo e un'altra mente, ma non ho avuto fortuna finora. Allora mi arrendo, mi sdraio e lascio che quei cani rognosi dei miei pensieri si avventino sulla mia carcassa. Vitadimerda.
Riuscissi almeno a smettere di pensare a quando lei era ancora qua; invece sono un cazzo di inetto e non ho le energie per reagire. Fanculo a me. Continuo a fissare le pozzanghere luminose sul soffitto. Ad ascoltare voci e rumori lontani. A fluttuare nell'immobilità del salotto.



Credo uscirò a fumarmi un altro paio di sigarette.

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