mercoledì 8 luglio 2015

IO SONO VERTICALE

"Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un'aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell'uno la lunga vita, dell'altra mi manca l'audacia.

Stasera, all'infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu' perfetto -
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu' naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me."

Sylvia Plath

martedì 7 luglio 2015

MERCOLEDI'



E’ mercoledì.
Non c’è molto altro da dire.
Perché il pensiero di raccontarmi, francamente, mi dà la nausea. E non intendo la nausea esistenziale e metafisica di Sartre. Intendo la nausea che sale e ti prende a letto, e tu ti devi  alzare di scatto con la mano davanti alla bocca e correre in bagno, quella che, se stringi i denti, vomiti a spruzzo.
Quindi non parlo.
Il problema è che non riesco a smettere di pensare.
Di pensare che non è colpa sua, per quanto le amiche dicano che si è comportato da stronzo (le amiche,dopo, ti dicono sempre che si è comportato da stronzo perché era effettivamente uno stronzo; le vere amiche sono quelle che hanno il fegato di dirti che è stronzo prima che finisca tutto). Credo mi abbia sopportata fin troppo.
Forse sono nata nel secolo sbagliato; sarebbe stato più appropriato per me il Cinquecento, il secolo della melanconia.
Invece sono nata nel secolo degli hashtag.
Ho cominciato ad essere cerebrale e introspettiva fin da adolescente, con tendenze a stati depressivi e apatia. Le cose non sono migliorate,  e non ho mai fatto granché per migliorarle. La melma che mi circondava non sembrava essere migliore di quella in cui sguazzavo.
 Ho provato il Daparox, lo Zoloft , il Cloriflox. Poi ho conosciuto lui. E sono stata meglio davvero.
Nemmeno io ci credevo, a queste fesserie romantiche. Sono sempre stata scettica, pragmatica e cinica. Gli uomini  mi servivano per andare a letto, non certo per curare le mie paturnie esistenziali.
Poi ho conosciuto lui.
Per la prima volta sono riuscita a mettere al primo posto qualcosa che non fossi io e le mie psicoparanoie. Ma non è durata molto.
Ovviamente. Non poteva durare molto. Me lo aspettavo, di ricadere nel buco nero.

Però, santissimo iddio, un po’ ci speravo.
Ma d’altronde io non sono nata principessa.
 E quindi.
Quindi durante l’ennesima accanita delirante discussione- una cacofonia di insulti e rinfacci- lui è uscito da casa mia sbattendosi la porta alle spalle. Mi aveva minacciato più volte, dicendomi che se non smettevo di urlare come una banshee e se, per Dio, non mi calmavo una buona volta, se ne sarebbe andato.
Non gli ho creduto. Ho peccato di superbia.
Invece ha smesso di parlare. Respirava forte. Ascoltava inerme il mio delirio rabbioso, fissando intensamente la pianta grassa sul davanzale della finestra. Lo sguardo si è poi abbassato fino a toccare la punta delle sue scarpe – un paio di Clarks vecchie di due anni leggermente sporche di terra. Stava seduto in poltrona, schiena ben eretta e il solito aplomb impeccabile. D’improvviso ha alzato gli occhi, puntandoli dritti nei miei, iride nell’iride, un canale retinale di circa mezzo minuto. Infine si è alzato- e allora, solo allora sono ammutolita anch’io-, si è avviato verso l’ingresso ed è uscito. La porta si è chiusa, lasciandomi sola in un silenzio assordante. Insostenibile.
Sono rimasta impalata in piedi a guardare la porta con insistenza per almeno dieci minuti. A rievocare le sue spalle che si allontanavano.  Sbattevo le palpebre. Poi ho dato un calcio alla porta. Stupida porta.
Il resto, come si dice, è storia.
Io sono troppo orgogliosa per ricontattarlo e, boh, supplicarlo di tornare e fregnacce del genere. Inoltre nel buco nero ci devo stare da sola; non voglio trascinare anche lui quaggiù.

Qualche giorno fa, in un pomeriggio libero sono andata da mia mamma. Lei di solito è una di quelle persone che riescono ad articolare una quantità impressionante di parole al minuto, che trovano sempre una domanda in più da farti o un nuovo argomento di cui parlare (questo, nei momenti in cui hai mal di testa, o i postumi, o entrambi, può essere alquanto fastidioso).
Temevo che mi avrebbe mitragliato di interrogativi e commenti e preoccupazioni. Ero già pronta a ringhiare e battere in ritirata.
Invece non una parola.
Mi ha fatto sedere, mentre lei metteva a bollire l’acqua per il tè. Emanava bontà e pacatezza. Trasudava amore incondizionato. E io la guardavo  dal fondo del pozzo in cui, un giorno, ero caduta.

Quel giorno mi sono sentita come se avessi di nuovo avuto sedici anni. O forse anche meno. Non avevo la forza di sostenere l’assurdità dei miei ventotto anni.
Ho lasciato che mamma mi asciugasse le lacrime, che mi accarezzasse i capelli, che mi zuccherasse il tè.
Ho mangiato la crostata alla marmellata di more sentendomi un pochino felice. Una felicità insignificante come le briciole che cadevano (polvere di stelle) e si spandevano sul tavolo, certo, ma pur sempre qualcosa. Finita la merenda, ho raccolto il pulviscolo di pasta frolla in un tovagliolo e l’ho gettato via.
Poi ho abbracciato la mamma. Forte. A lungo.

Poi sono andata a casa. E sono tornata ad essere la disgraziata di sempre.
Non esco con le amiche. Non faccio aperitivo. Non posto foto di tramonti su Facebook. Non guardo serie Tv.
Vado a lavoro. E mi trascino a casa nel mio stato larvale. Un bozzolo destinato a rimanere bozzolo.
Quindi ora sono sul divano ed è mercoledì. Continuo a fissare la porta da cui lui è uscito dandomi silenziosamente le spalle. La fisso con insistenza. Stupida porta. Vorrei che si aprisse e lo lasciasse entrare ancora una volta.
Ma è mercoledì, io fisso la porta e lui non tornerà.